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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Graham Greene raccontato da suo nipote Jonathan Bourget

Un inglese tranquillo, anzi no. «Tutta la sua vita è stata una fuga», ci racconta al telefono, da un’amena vallata ginevrina, suo nipote Jonathan Bourget, 66 anni, manager. «Una fuga dalla depressione, dalla noia, dalla fama, dalla vita». Chi era davvero Graham Greene? Uno dei massimi scrittori di sempre, ovvio. Ma anche uno dei più misteriosi, schivi ed eternamente complessi. Sono passati trent’anni dalla sua morte a 86 anni per leucemia, il 3 aprile 1991 a Corsier-sur-Vevey, nel Canton Vaud della Svizzera, dove insieme all’ultima amata Yvonne aveva deciso di addolcire il finale della sua vita. Così è uscita per Sellerio una biografia monstre, che cerca di mettere ordine a un enigma maestosamente esistenziale come quello del romanziere ed ex spia inglese dell’MI6: Roulette russa. La vita e il tempo di Graham Greene, dell’omonimo ( ma non parente) Richard Greene.
Tomo notevole, che impila con rigorosa maestria il domino letterario e vitale di un monumento della narrativa, autore di atavici, surreali e premonitori capolavori come Il nostro agente all’Avana, Il potere e la gloria e Un americano tranquillo. Perché, sin dall’infanzia, Greene patisce una vita aspra: scioccato dal lago di sangue delle tonsille brutalmente asportategli in casa da bambino, bullizzato dai suoi amici in quanto figlio del preside della Berkhamsted School nell’Hertfordshire, tormentato da manie suicide e disturbo bipolare, che gli scinderà per sempre mente, corpo e anima riconvertita cattolica per volere della sua prima moglie Vivien Dayrell- Browning. Ovvero, la madre dei loro due figli, conosciuta negli anni Venti dopo una lettera critica di lei al Greene giornalista. E dalla quale si separò, senza mai divorziare, dopo la Seconda guerra mondiale.
Poi però c’è il racconto vivo di chi per decenni ha conosciuto e vissuto Greene, di chi ha avuto il coraggio di fissarlo e penetrare i suoi occhi glaciali, come Jonathan Bourget. In un nido familiare di silenzi, segreti, lutti. Il mese scorso, «forse per un aneurisma», è morta la madre di Jonathan, e prima amata figlia di Graham Greene, l’ 87enne Lucy Caroline Greene Bourget. Il secondogenito Francis, 85 anni, riservatissimo, giramondo ed esotico avventuriero come il padre di cui cura i diritti, ha concesso l’ultima, minimale intervista vent’anni fa, per poi recludersi nella sua bucolica magione del Devon. E l’ultima assistente di Greene, Amanda Saunders, non risponde al telefono da tempo.
Non resta che lei, Jonathan.
«Già».
Chi era per lei Graham Greene?
«Un nonno con cui avevo un rapporto semplice.
Rifuggiva costantemente dai media, dalle interviste, dai fotografi. Prima di trasferirsi come noi in Svizzera, veniva a trovarci più volte all’anno, a Natale, a Pasqua… Magari era appena tornato dai suoi amati Panama e Nicaragua e ci mettevamo intorno al fuoco: era fantastico ascoltare i suoi aneddoti».
Tipo?
«Era ossessionato dalla propaganda e dagli errori in politica estera dell’America, degli interventi di quest’ultima in Nicaragua o Sudamerica, di come gli Stati Uniti e la Cia “si buttassero sempre la zappa sui piedi”. Ci raccontava tutto ciò che aveva visto. Poi i suoi ricordi di guerra, la prima volta che sparò con un fucile (durante la Seconda guerra mondiale fu in Sierra Leone, prima del Vietnam, ndr). Ne era molto orgoglioso. Oppure, ricordo quanto soffrì per il suo pamphlet J’accuse sulla corruzione a Nizza (1982) e del sindaco Jacques Médecin, che lo denunciò per diffamazione, risucchiandogli molte energie a fine vita. Peccato che Graham sia morto tre anni prima che Médecin venisse arrestato, nel ’94».
Qual era la sua migliore qualità di suo nonno Greene?
«Non aveva paura di niente. Niente. E lottava sempre per gli ultimi, la giustizia e la verità».
È la lezione più importante imparata da lui?
«Sì, insieme al difendere i propri principi, sempre e comunque. Per il resto era un uomo grosso, sempre gentile. Ma non dovevi provocarlo. Come quando feci un casino con alcuni amici nella sua casa di Anacapri. Poteva diventare spietato, soprattutto verso i più piccoli».
Si è detto che Greene talvolta non sopportasse i ragazzini, come dimostrerebbero “La Roccia di Brighton” e altre sue opere, e che fosse distaccato da voi nipoti. È vero?
«No. Con noi in genere è sempre stato gentile e generoso. Con mio fratello Richard giocava a scacchi, con me a Monopoli, con mia madre a carte, a “Gin Rummy”. E poi così sono le famiglie inglesi, soprattutto quelle di una volta: i sentimenti non sono evidenti. Devi scoprirli tu».
Lo stesso vale per il rapporto frastagliato di Greene con le donne? Non divorziò mai, ma ebbe liaison e lunghe saghe d’amore: Lady Walston per 20 anni, Yvonne Cloetta per altri 26.
«Ripeto, così sono le famiglie inglesi. Non si parlava mai di queste cose. Ma sono certo che mio nonno fosse un uomo molto amorevole. Altrimenti le sue storie non sarebbero durate così tanto».
E dei suoi romanzi discutevate?
«No. Ma noi non glielo chiedevamo. Graham era disciplinatissimo nel suo lavoro: scriveva 500 parole al giorno. Fine. Anche quando era particolarmente ispirato, non andava mai oltre. Ma comunque ci sentivamo parte del mondo e dei libri di nonno: disseminava la sua vita nelle opere. Il Dottor Fischer a Ginevra, per esempio, si ispira a una nostra cena familiare. Il resto della sua vita si riduceva a due obiettivi: difendere gli umili e uccidere la noia».
Perché?
«Perché la noia è stata la maledizione di tutta la sua vita. Come la depressione e i disturbi mentali di cui ha sofferto. Perciò da ragazzo “giocò” persino alla roulette russa. Non c’era niente che mio nonno odiasse più della noia. Doveva alleviarla in qualche modo».
Era un uomo infelice Graham Greene? Nella sua vecchia autobiografia “Vie di scampo” (1981) si ha questa impressione.
«Non credo. Ha sofferto molto, ma avuto anche soddisfazioni. E negli ultimi anni era più in pace con i suoi demoni interiori».
Ci parli di quegli ultimi anni, quando si trasferì con Yvonne Cloetta in Svizzera, a pochi chilometri da lei.
Quelli furono anche i lunghi mesi della malattia, fatale, di suo nonno. Greene aveva paura di morire?
«No. Dopo una vita del genere, Graham aveva già accettato la fine. Me lo confermò anche durante l’ultima conversazione che avemmo a casa, mentre era a letto, prima di essere ricoverato in ospedale. Gli interessava soltanto “come” morire. Anzi, da cattolico, era piuttosto curioso di sapere che cosa ci fosse nell’Aldilà. C’era una cosa però che lo mandava ai matti».
Cosa?
«A causa della malattia, il medico gli aveva ridotto il quantitativo giornaliero di alcol a una sola birra serale. Non lo accettava. Col passare del pomeriggio, guardava sempre più nervosamente l’orologio».
Almeno, in Svizzera, all’epoca viveva anche Charlie Chaplin, grande amico di suo nonno.
«Si conoscevano da molto tempo, Graham lo sostenne quando Chaplin finì invischiato nella caccia alle streghe maccartista. Fecero anche qualche affare sballato insieme negli anni. Erano buoni amici. Certo, da ragazzo ci rimasi male quando Chaplin venne per la prima volta a casa nostra, durante una visita di Graham. Mi aspettavo il burlone con il cappello a bombetta dei film. Invece era un povero vecchio su una sedia a rotelle».
Suo nonno ha spesso sfiorato, ma mai vinto il Nobel. Un rimpianto per lui?
«Per niente. Graham non era uno che scriveva per avere riconoscimenti, premi e tantomeno celebrità. Ma solo per se stesso, per fuggire. Gli faceva più piacere ricevere onorificenze dal Guatemala…».
Ma perché spesso chiama suo nonno col nome di battesimo?
«Quando ero piccolo, lo chiamavo sempre “nonno”. Ma lui poi se la prendeva: “No, chiamami Graham!”.
Forse perché non voleva sentirsi vecchio? Non so.
Non mi ha mai detto perché».