Tuttolibri, 28 marzo 2021
La filosofia attraverso a un cocktail
C’è una nuova generazione di filosofi che ha fatto dell’indisciplina la cifra stessa del pensiero. Non costituiscono una scuola, nemmeno un movimento; e tuttavia, da una parte all’altra del mondo, condividono un’idea di filosofia che rompe con l’ossessione per gli spettri del proprio passato, che non si identifica con un metodo, un linguaggio, una disciplina accademica, che non riconosce nessun canone né ha oggetti di investigazione privilegiata. È una filosofia viva, intensamente erotica, a tratti eccitata ed eccitante, che non rinuncia a niente perché sa che il pensiero è ovunque, e può scorrere libero anche attraverso una serie di raffinati cocktail scelti con cura e bevuti nel corso di una notte nel rinomato bar «Trench» di Tokyo.È qui che inizia e finisce il bellissimo L’arte di essere ubriachi del filosofo belga Laurent de Sutter che di questa indisciplinata e vitale generazione di filosofi è sicuramente uno dei rappresentanti più raffinati. Nello spazio notturno del bar «Trench», così distante da una biblioteca o un’aula universitaria, prende corpo una riflessione che spazia dai poeti della Baghdad del IX secolo ai calligrafi giapponesi dell’era Meiji, dall’etica alla politica, dagli alchimisti a Debord e disegna così una vera e propria ontologia dell’ebbrezza che destabilizza la questione chiave della filosofia – la questione dell’essere – fino produrne il crollo. Le parole di de Sutter, a questo proposito, sono limpide come un Martini cocktail: «Esiste dunque un’ontologia dell’ebbrezza, che ne accompagna l’etica, l’estetica, l’epistemologia e la politica – un’ontologia che è innanzitutto negativa, apofatica e deludente anch’essa: l’ontologia del crollo dell’ontos, dell’essere». Questo crollo tuttavia non lascia macerie. Questo crollo è una dissoluzione, un annullamento che apre a una fuoriuscita dall’essere in direzione del movimento traboccante di una vita che eccede i limiti dell’io.Nel libro di de Sutter non c’è nessun elogio del soggetto ebbro, nessuna retorica del bere come esaltazione del soggetto sregolato. Se l’io e il soggetto sono le istanze poliziesche di controllo della vita, l’arte dell’ebbrezza è una sorta di raffinatissima arte marziale che spinge al superamento di queste istanze e mette il corpo in contatto con il principio della potenza vitale. Per illustrare la connessione tra gesto, corpo ed ebbrezza, de Sutter evoca uno stile di combattimento chiamato zui quan «pugno ebbro» o «pugilato dell’uomo ebbro»: «Laddove un praticante di kung fu tradizionale cerca di raggiungere il suo obiettivo di sferrare o di parare i colpi nella maniera più volontaria, più decisa possibile, il “pugilato dell’uomo ebbro” lascia agire il corpo stesso lì dove questo è in relazione con la stessa vita». L’arte dell’ebbrezza è un’arte della liberazione come intensificazione vitale. Ma come si arriva fin qui, al termine di questo viaggio di fuoriuscita dall’essere in direzione della vita?In primo luogo entrando in un rapporto sensibile con la verità. Se Platone, nel Simposio, al termine della scala amoris, aveva abbandonato la dimensione di un pensiero che «vede» per passare all’idea del «toccare», de Sutter si spinge oltre: non si tratta né di vedere, né di toccare la verità, ma di berla, consapevoli, per usare le parole di Feuerbach, che «solo la verità diventata carne e sangue è verità». Bere è un’esperienza filosofica di incorporazione della verità intesa non come sapere, ma come forza di trasformazione, come vis: potenza di eccesso permanente, tensione verso il proprio supermento. Ecco che qui l’idea di filosofia come discorso teorico, meditazione concettuale, forma di sapere, viene ecceduta in direzione di qualcosa come un’arte della vita, un’arte di intensificazione della vita. «Bevendo vino, non ci si accontenta di aggiungere idee, parole o visioni a una sorta di biblioteca interiore che ospiterebbe la nostra conoscenza e la nostra filosofia, ma ci si nutre della forza stessa della verità, in modo da poterla assimilare nel senso più rigoroso del termine». È questa la verità che alberga nel vino, come sapevano gli alchimisti le cui strumentazioni permisero, come ricorda de Sutter, di realizzare attorno al 1100, a Salerno, la distillazione di alcolici.È chiaro come il corpo, il corpo vivente del filosofo, giochi un ruolo centrale nella filosofia di de Sutter. L’arte del bere è un’arte di pensare attraverso il corpo liberato dall’illusione dell’io e in grado di entrare in connessione con il principio vitale che rifiuta ogni controllo, ogni gestione. Non è forse questo l’effetto prodotto da un cocktail? L’effetto per cui è ricercato e contro cui combattono i fautori della sobrietà? In una parola: eccitazione, fuoriuscita da se stessi. Ecco ciò che produce l’arte dell’ebbrezza: la fuoriuscita del sé da sé per abbracciare la vita che lo attraversa. Ecco quello che avrà pensato, in una notte di ebbrezza, in un bar di Tokyo, l’uomo, il filosofo che ora torna a casa. «Dietro la vetrina la luce si spense. Come ogni notte». —