Tuttolibri, 28 marzo 2021
Intervista a Chris Kraus
«Io sono sociofobico, non sarà un lockdown a spaventarmi. Anzi, sa che le dico? Quasi non mi accorgo della differenza». Chris Kraus è di ottimo umore, anche se la pandemia a Berlino, dove lo scrittore e regista vive e lavora, non accenna a rallentare. E lui vive il più possibile chiuso in casa. Piuttosto, ad eccitarlo è il lancio in Italia de I figli della furia (Sem). In Francia, il suo ultimo romanzo è stato un successo trascinante, in Germania i connazionali hanno alzato contro di lui un muro di polemiche. Era il 2017, quando il libro veniva pubblicato in tedesco: più di una presentazione pubblica dell’opera è stata all’ultimo cancellata, sotto il peso delle critiche. Memoria del nazismo significa «maneggiare con cura». E invece, lui ha scoperchiato il vaso di pandora, nella coscienza di una «nazione di bugiardi». Si è immedesimato nei carnefici della Shoah (per condannarli meglio). Non poteva essere altrimenti per Kraus, erede suo malgrado della memoria di un nonno nazista, fedele membro delle SS negli Stati baltici, con cui lui aveva molti rapporti. Uno dei piccoli Eichmann, gerarchi disumani ma buoni padri di famiglia, che l’aveva educato ai valori aristocratici. L’antenato, Otto, è l’ispiratore di quest’opera mastodontica. Un traditore e una spia, nel corso del Novecento, che come milioni di tedeschi ha provato a ottenere un «Persilschein» (dal nome del detersivo per i panni più famoso in Germania), una patente di non colpevolezza per ripulirsi la faccia, per ritrovare un lavoro dopo la Seconda guerra mondiale, per non pagare multe o non finire in carcere. E ci è riuscito.
Ma oltre all’ultima fatica letteraria Chris Kraus, 57enne, è molto più che uno scrittore. In una carriera trasformista, ha toccato tutti i media, dal cinema alla tv. Il suo film più famoso è Quattro minuti, (l’unico distribuito in Italia, ora su Netflix), vincitore di un importante premio in Germania e candidato ai Nastri d’argento nel 2008. Kraus ha lavorato anche come illustratore, ha studiato Storia e poi Regia, ha scritto a lungo sceneggiature per il piccolo schermo, ad esempio per la serie satirica «Motzki» sul rapporto Est-Ovest dopo l’89. È al quarto libro: il primo, «Scherbentanz» (2002) è diventato un film.
C’è la violenza, e c’è l’innocenza nel suo libro, stridono e convivono. Purezza di cuore e bugie indicibili. Ci sono la guerra e gli orrori “perdonati”, nel Novecento che continua fino a oggi, come un secolo lungo, altroché Hobsbawm. Lei ha lavorato più di dieci anni al romanzo. Solo oggi si può vedere cos’è stato davvero il secolo scorso?
«Non sono affatto partito col progetto di un atlante della storia tedesca, mi ero dato un compito molto ridotto: capire cosa avesse fatto veramente durante la guerra mio nonno, ex soldato nazista. Avevo scritto un altro libro che aveva lo stesso titolo di questo nella versione tedesca, Il sangue freddo, con la documentazione raccolta su di lui e sulla famiglia con i miei cugini, foto, testimonianze. Volevo trarre una serie tv liberamente ispirata. Poi la mia editor, Tania Graf, mi ha incoraggiato a scrivere un romanzo. Questa versione ha a che fare solo marginalmente con la realtà del nonno, ma con una prospettiva personale e con l’empatia verso una persona che mi ha cresciuto ho potuto esprimere ciò che penso del processo di rielaborazione del passato del mio Paese».
E cosa pensa? In tedesco c’è quella bella parola “Vergangenheitsbewältigung”, il superamento del passato. L’Italia guarda alla Germania pensando che l’identità nazista sia stata elaborata meglio di quella fascista, con le dovute differenze storico-sociali. Nel 2021 ricorrono i 75 anni di Norimberga, ma i tedeschi nel ’46 hanno avviato anche il processo di de-nazificazione, che per molti storici è stato più di facciata che di sostanza. Condivide?
Kraus ride di gusto.
«È molto divertente che si perpetuino ancora queste bugie o illusioni sulla società tedesca. È come trovarsi di fronte a una società dei bugiardi. La “Selbstvergewisserung”, il processo di ricerca di identità, che ho avviato io con la mia famiglia è stato fatto troppo poco. Anche per Auschwitz: sembra che ci sia stato il signor Koch con altri cinque o dieci uomini responsabili della soluzione finale. Il cuore del mio romanzo sta proprio qui, e per questo sono stato criticato nel mio Paese, e non compreso. Quanti uomini sono entrati ad Auschwitz? Cinquantamila. Persone che anche solo una volta hanno visto ciò che accadeva, i forni, la riduzione allo stato di disumanità. Sì, le SS facevano ricambi frequenti, ma queste 50mila hanno discendenti che dovrebbero interrogarsi sul loro cognome».
La coscienza non è pesata abbastanza, secondo lei? Ma cosa c’entrano le generazioni successive?
«Dico che i tedeschi hanno fatto un lavoro pulito, e questo tema mi genera tanta emozione e resistenza a parlarne, e rabbia. Sì, io critico apertamente il modo in cui il mio Paese ha elaborato il passato. Ha diviso la società in due: Täter und Opfer, carnefici e vittime, o almeno “nicht Täter”, non carnefici. Una volta all’anno la Germania si ferma per la commemorazione della Shoah e poi riparte. Dopo le mie ricerche sono arrivato alla conclusione che, secondo noi, i nazisti sono arrivati da Marte, criminali solo quando sono stati catturati e identificati come cattivi. Tutti gli altri sono semplicemente innocenti, o conformisti, o al più gregari».
Suo nonno chi era, invece?
«Un baltico, un ufficiale delle SS, poi membro dell’organizzazione Gehlen – gruppo di nazisti del Terzo Reich che nel ’56 sarebbe diventato il nocciolo del Bundesnachrichtendienst (Bnd), il servizio segreto della Germania occidentale, ndr -, una spia della Cia e infine persino del Kgb. E questo lo rende un personaggio davvero romanzesco, e abbastanza affascinante».
Coincide con il personaggio di Koja, per cui chiaramente lei parteggia?
«Konstantin è simpatico, in ogni momento si volta indietro e riguarda la storia con la lucidità di chi vede dall’esterno. Non è l’incarnazione letteraria di mio nonno: in tutti e due i fratelli ci sono elementi suoi, ho usato un meccanismo letterario abbastanza facile, quello di Schiller nei Masnadieri. Volevo capire cosa pensava un nazista dell’epoca, immedesimarmi e provare empatia con lui, per condannarlo meglio. Sono abbastanza ambivalente: da un lato non voglio negare il ruolo dei miei famigliari, una colpa che sento anche io, dall’altro voglio puntare un faro sul profilo oscuro dell’eredità tedesca, sulla storia dell’ex Germania dell’Est e delle Repubbliche baltiche come la Lettonia, decisamente rimossa».
Quando ha scoperto che suo nonno era un carnefice?
«Nel 2001 ho saputo che nonno era una spia, da lì ho iniziato a ricercare. È stato uno choc pensare che quella persona, che dava così importanza alla verità e mi aveva insegnato a distinguere tra buono e cattivo, facesse un lavoro basato sulla bugia».
I nazisti del suo libro si sono poi ripuliti. Non è troppo facile concluderla così? È quello che le rimproverano alcuni suoi connazionali.
«In Francia hanno cambiato il titolo in La fabbrica dei bastardi, io credo che sia molto azzeccato. L’adesione al nazismo era enorme, capillare, il partito aveva 8 milioni di membri. Come diceva Adorno, il ritorno del nazismo non è una questione psicologica, ma sociale. E come dice Woody Allen in Hannah e le sue sorelle: la domanda da talk show non è come mai è potuto succedere, ma come mai non succede tutti i giorni».
E lei cosa si è risposto?
«Io sono pessimista sul futuro della nostra democrazia e il pericolo che nuovi nazionalismi la sconfiggano è reale. Nel mio film Quattro minuti, che ha avuto buon successo in Italia, ho fatto recitare l’ufficiale della Gestapo come un commissario del Tatort, oggi seguitissimo crime tv in Germania, con voce pacata e sottile violenza. Mi hanno molto criticato: un SS deve urlare! La seconda parte del libro è fondamentale per me: questa idea che la società di oggi è in continuità con il passato, e che non esiste un vuoto buono. Non siamo eroi. E più spesso c’è chi si salva perché riesce a insabbiare il passato».
Sullo sfondo della sua rilettura romanzesca del secolo scorso c’è il ritorno dei neonazismi e dei nazionalismi in Germania?
«Evidentemente, non è stato fatto così bene questo lavoro di interrogazione del passato, se l’AfD, che in alcune frange si considera erede dell’ideologia nazionalsocialista, è oggi al 10-15%».
Restando qui ed ora, come sta vivendo un intellettuale il lockdown?
«Non c’è molta differenza dalla mia vita di sempre, io sono sociofobico. Come regista, però, a ottobre inizio a girare il mio settimo film, una continuazione di Quattro minuti, una grande produzione cinematografica, speriamo di riuscirci».
Abituati a Netflix, cambierà il cinema dopo la pandemia? Cambieremo noi?
«Siamo dentro una grande svolta, non si può ancora dire come saremo. Non credo avverrà un reset. Il Covid è stato il catalizzatore di alcuni cambiamenti. È ancora una scatola magica da decifrare, forse porterà meno solidarietà e più isolamento. Di certo lo spostamento al piccolo schermo non sarà reversibile». —