Tuttolibri, 28 marzo 2021
Intervista ad Alessandro Robecchi
A Milano è nato e ci sta «come un topo nel formaggio», da lì non si schioda spesso nemmeno con la fantasia e i suoi romanzi li ambienta tutti tra il Duomo e la circonvallazione esterna, giusto qualche sconfinamento oltre la tangenziale e l’hinterland. Per questo libro però si è spinto fino a Dresda e Praga con flashback nella Parigi des années folles, ma è un caso più che speciale, il tributo a un grande poeta di cui si è innamorato. Perché Alessandro Robecchi scrive «gialli? noir? mai capito la differenza» che non sono mai solo misteri da risolvere, ma mondi che gli stanno a cuore. Per dire, in Follia maggiore ha osato varcare le sacre quinte dell’opera lirica e «senza scrivere sciocchezze» come assicura «l’operoinomane» della Stampa Alberto Mattioli, dunque chapeau. Del resto, per capire quanto possa esser serio (quasi secchione) un autore che fa satira di mestiere basta dare un’occhiata al suo sito. Raffinato, ordinato, con tanto di logo design e le copertine dei libri con accanto una sorta di sua recensione alle recensioni: «La recensione di...», «la bella recensione di», «la piccola ma preziosa…», «l’ottima…». Nella biografia – pure quella esemplare – lui si schermisce ma nella sua vita creativa ha fatto di tutto (e del meglio): il redattore per la rivista giusta di architettura, il critico musicale per l’Unità e il Mucchio Selvaggio, il giornalista satirico a Cuore, poi Radio Popolare, Urban, il manifesto, fino all’approdo in televisione con Crozza, di cui è autore dal 2007. Ha anche una rubrica sul Fatto ed è molto attivo su Twitter, dove certo non le manda a dire – dal governatore Fontana in su e in giù – con fan che gli scrivono: «Quoto tutto, anche la punteggiatura». Ha pubblicato pure due saggi mentre i romanzi ha cominciato a scriverli nel 2014, perché – ha detto in un’intervista – «mi interessa parlare delle vite degli altri». Della sua infatti parla pochissimo, per tirargli fuori che ha un gatto abbiamo dovuto sequestrarlo un’ora, quasi come la diva Flora nel suo nuovo romanzo.
Libro ambizioso. È un tuo sogno sequestrare il pubblico della tv trash e farlo commuovere per qualcosa di vero?
«Sarebbe bello però no, non ho questa ambizione, quello che vorrei dire è che se alla gente dai della roba buona la prende volentieri, Robert Desnos dice nel libro “dare cose buone al popolo”; ecco credo che la gente dovrebbe chiedere di meglio alla tv e quelli che la fanno dovrebbero sforzarsi di dare qualcosa di più».
Come dopo la trasmissione di Flora, pensi che con l’uscita del tuo libro ci sarà un’impennata di digitazioni di “Desnos” su Wikipedia?
«Lo spero, se anche uno solo leggerà qualche poesia di Desnos io sarò felice; me ne sono innamorato proprio come si racconta nel primo capitolo del libro, andavo da Praga a Dresda e mi sono fermato al campo di concentramento di Terezìn per una di quelle visite giuste, civili, che si fanno quando si può, e lì c’è una piccola lapide “qui morì Robert Desnos poeta e resistente"».
Desnos, uno che si arruolò volontario per il piacere di “rompere i c*** a Hitler”...
«Eh sì, non ci è riuscito ma ci ha provato... Per me Desnos era un nome tra i tanti dei surrealisti che mi erano passati sotto gli occhi quando studiavo, ne ho scoperto prima le filastrocche per i bambini, poi le poesie d’amore, c’è anche una monumentale biografia perché l’opera d’arte più grande di Desnos è la sua vita».
La formica-locomotiva spiegata alla fine: come hai pensato di mettere il lager in un giallo con humour?
«Quando racconti una vita devi dirne anche l’epilogo, ma il marchio di Desnos – anche se la sua vita grandiosa è finita in quel lager a 45 anni – è stato quello del resistente».
L’insegnante-scrittore D’Avenia racconta nella sua rubrica che un’allieva gli ha chiesto “ma esistono poeti vivi”? Tu che le rispondi?
«Che i poeti sono tutti vivi; è un discorso che ho fatto anche per la lirica in Follia Maggiore. È un peccato che la poesia venga considerata come roba alta, difficile, perché i poeti ci servono, bisogna usarli, dicono cose che vorremmo dire noi e non ne siamo capaci».
Corrado Stranieri – il sequestratore – è un gran personaggio, toglie la scena a Monterossi. Volevi disegnarlo così o si è allargato lui?
«Il Monterossi… peggio per lui se si fa mettere in ombra, io ormai lo maneggio da anni quindi siamo amici e non si offenderà; la verità è che il personaggio a un certo punto dice “io ho un piano bellissimo oltre le stelle…” e per giustificare una cosa simile ci vuole un personaggio come dire all’altezza, per cui lo spazio se l’è preso da solo, ogni volta che dovevo mettere un mattoncino che facesse vedere questo piano è chiaro che l’ideatore aumentava il suo peso nella narrazione».
Gli sbirri Ghezzi e Carella qui non ci sono; qualche lettore ci resterà male...
«Tenere tutti nella stessa storia è difficile e forse non è giusto, c’è un malinteso senso della serialità per cui ci si aspetta nel libro dopo qualcosa che si è già trovato nel libro prima; io lo capisco, è rassicurante, però penso che ogni romanzo debba vivere da solo; Simenon ha scritti oltre 70 Maigret e nessuno dice “la serie di Maigret"».
Nei tuoi libri non c’è mai la premessa “ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale” però la Grande Fabbrica della *** è detta Tv Commerciale e Flora circonfusa di luce ricorda una conduttrice in carne e ossa. Mai avuto querele o proteste?
«Mai avuto problemi né me li aspetto, perché Flora esiste in natura sotto forma di varie Flore e se a noi ne viene in mente una poi magari durante le presentazioni – mi è capitato – mi dicono un altro nome. Perché Flora De Pisis è un personaggio mio dal primo libro ed è, diciamo così, l’incarnazione perfetta di quella televisione lì, quindi il gioco dell’identificazione lo fa il lettore; quanto alla frasetta “ogni fatto…” mi sembra sempre un po’ un’autodenuncia del contrario».
Zingaretti dalla D’Urso è la prova che ha ragione Flora o che ha ragione Nanni Moretti, che “con certi dirigenti..."
«Quello che dice Nanni Moretti ormai è scolpito nella pietra, lui l’ha detto al futuro ma adesso possiamo dire che è vero, non è più una frase profetica; quanto al resto, il problema è che la politica non ha più parole e quindi va rubandole qui e là, si aggrappa a tutti i linguaggi, da quello dei comici a quello della d’Urso».
Il Monterossi è un bel personaggio bello ma può essere irritante. Si è arricchito facendo qualcosa in cui non crede; è un radical chic?
«Ogni tanto è un po’ respingente, ma quella cosa lì, che lui ha fatto i soldi, è servito e riverito per una cosa che lui detesta in realtà gli conferisce un blues che è importante, cioè non è uno pacificato il Monterossi, è uno che si detesta un po’ e quindi questo lo assolve in parte. Quanto al radical chic credo che Monterossi sia più chic che radical, a differenza mia che sono più radical che chic. Infatti litighiamo spesso».
La tua Milano: questa tragica pausa di riflessione per Covid cambierà qualcosa o tornerà nella sua “bolla”?
«Questa paura – questo stremissi in milanese – non so cosa produrrà, di sicuro ha un po’ mandato in pezzi quella narrazione unidimensionale della Milano da bere di cui non ci liberiamo da 40 anni, quella per cui se vado a presentare un libro a Cefalù o a Rimini pensano che qui facciamo tutti l’architetto o la modella e abitiamo nel Bosco Verticale che ha 30 appartamenti e noi siamo 2 milioni».
Le battute, ce ne sono tante. Tu fai l’autore per Crozza, vivi fra le battute. Come si fa a essere sempre brillanti?
«Credo che la satira sia un linguaggio parallelo, e visto che io la faccio dai tempi di Cuore la maneggio come uno che sa un’altra lingua, così quando vedo cose assurde mi viene quasi prima la battuta della riflessione; l’ironia fa parte del bagaglio che ti porti dietro, e insomma io perdo l’amico ma non la battuta… mi è capitato».
Charlie Hebdo questa volta si è perso gli inglesi...
«Se si incazzano gli inglesi vuol dire che funziona. Quelli di Charlie Hebdo hanno dimostrato con il sangue – non voglio essere retorico ma insomma con le loro vite – che la satira è un lavoro importante, pericoloso, che si possono dire in quel modo cose che altrimenti non potresti dire e che quindi è un luogo di libertà».
Anche quello del noir è un linguaggio a sé?
«A cominciare da Chandler i giallisti e i noiristi soffrono di non essere considerati veri scrittori ma questa divisione per generi non mi piace. Forse perché ho fatto il critico musicale e so che c’è buona musica e musica mediocre. Dai tempi di Zola con Teresa Raquin ma addirittura di Dostoevskij con Delitto e Castigo, il noir permette di raccontare la società con meno veli, senza parlare delle proprie vite ma di quelle degli altri, e poi contiene di default alcune cose come il bene il male il delitto la colpa il dolore, cioè... non cose piccole».
Nel libro ci sono molte citazioni dall’inglese e dal francese, sempre con traduzione. Draghi apprezzerebbe.
«Io ci tengo, noi abitiamo la nostra lingua e se scrivo tre righe in francese o inglese trovo naturale dare al lettore la traduzione, per rispetto. Quanto a Draghi... credo che l’italiano sia la sua seconda lingua dopo l’inglese della finanza, quindi avrà l’entusiasmo del neofita. E dal Jobs Act in poi, quando te lo dicono in inglese, c’è una fregatura».—