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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Roma, 150 anni di criminalità

«Perché noi abbiamo il diritto anzi il dovere di chiedere, d’insistere perché Roma sia riunita all’Italia? Perché senza Roma capitale d’Italia non si può costituire». Così parlò alla Camera il conte di Cavour. Era il 25 marzo 1861, otto giorni dopo la nascita del regno d’Italia con Torino capitale. E subito, con schiettezza, il conte aggiunse: «Sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunciare assolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del governo. Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne gli è con dolore che io vado a Roma». Ma non vi andò, perché il 6 giugno la morte gli impedì di compiere l’impresa di unire Roma all’Italia.
Dal 1865, il regno ebbe per capitale Firenze. Tuttavia, il 21 settembre 1870, il ministro delle Finanze Quintino Sella poteva esultare: «Siamo finalmente a Roma! Grande grandissimo avvenimento. …Il motto “Roma è nostra” fu una scintilla elettrica che corse da un capo all’altro d’Italia eccitando un entusiasmo profondo”. Sella non era un mazziniano né un letterato, ma un liberale razionalista, ingegnere, minerologo, matematico: eppure, lui stesso confessava di essere uno di quelli che “vedono in Roma il fata trahunt».
Tanto entusiasmo non era condiviso dal segretario generale del ministero degli Affari esteri Isacco Artom, che era stato patriota del Risorgimento e segretario di Cavour. Il 30 giugno 1871, mentre si accingeva a trasferirsi con il governo a Roma, confidava ad un amico: “Ricevi un ultimo saluto ed una stretta di mano dalla moribonda capitale. Partiamo per l’ultima e la più pazza delle nostre avventure. Dio voglia che sia l’ultima, e che la nostra generazione, cui è toccato un premio ch’era follia sperar, sappia ora goderselo in pace! Vedi da queste parole con quali disposizioni d’animo io mi disponga a lasciar Firenze per la città eterna della malaria e delle febbri. … Confesso che non avrei creduto di riuscire in ciò: non è che le cose siano andate liscie liscie, ma finalmente ci si arrivò. Il resto, l’avvenire, rimane buio. Speriamo bene”.
Quel che nel 1871 appariva un avvenire buio, è per noi storia di centocinquant’anni di Roma capitale, durante i quali essa ebbe cambiamenti radicali e tumultuosi, accompagnati da speculazioni, scandali, ruberie, che hanno scandito la trasformazione di un grosso agglomerato di 200.000 abitanti in una metropoli di quasi 3 milioni. E nello stesso tempo però hanno accresciuto a dismisura la presenza di organizzazioni criminali di tipo mafioso, come mostra Enzo Ciconte raccontando le vicende della criminalità a Roma da Porta Pia a Mafia Capitale. Nei decenni più recenti, ai criminali immigrati da altre regioni, si sono aggiunti i criminali di una “mafia autoctona, originaria e originale”, che si è insediata nella struttura sociale, finanziaria, imprenditoriale, commerciale, urbanistica e turistica della capitale, fino a penetrare nei palazzi della politica, della burocrazia, dell’amministrazione della città e della giustizia.
L’esistenza di una “mafia romana”, sulla quale Ciconte concentra gran parte della sua storia, è stata negata da politici, organi di opinione, magistrati. Il 25 marzo 1999 la Corte di Cassazione annullò un verdetto di colpevolezza per il reato di associazione mafiosa, pronunciato nei confronti della feroce “banda della Magliana”, che operò a Roma fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta, perché, asseriva la sentenza, non risultava provata l’ “esistenza nella città di paura diffusa derivante da forza intimidatrice del vincolo associativo della banda della Magliana”, e di una “compenetrazione necessaria tra associazione e società civile”. La persistenza e l’aggravamento della criminalità organizzata romana, con propri caratteri di novità, furono confermata nella relazione dell’anno giudiziario 2016, dal procuratore generale presso la Corte d’appello Giovanni Salvi, il quale ne sottolineava “la differenza con le mafie tradizionali, con modelli organizzativi pesanti, rigidamente gerarchici, nei quali i vincoli di appartenenza sono indissolubili e inderogabili”, storicamente e sociologicamente incompatibili “con la realtà criminale romana, che è invece stata sempre caratterizzata da un’elevata fluidità nelle relazioni criminali, dall’assenza di strutture organizzative rigide, compensata però dalla presenza di figure carismatiche di grande caratura criminale e da rapporti molto stretti con le organizzazioni mafiose tradizionali operanti sul territorio romano”. Ma nel 2019 un’altra sentenza della Corte di cassazione ha negato l’esistenza a Roma dell’associazione mafiosa, comunemente denominata Mafia Capitale. Eppure, nel giugno del 2020 erano 837 immobili e 389 aziende i beni confiscati alle varie mafie della capitale.
Centocinquanta anni dopo esser diventata capitale d’Italia, Roma appare una “sotto assedio”, “città fragile, groviglio d’interessi criminali”, “terra di conquista della corruzione”. Come nel 1871, l’avvenire rimane buio. Speriamo bene.