Specchio, 28 marzo 2021
Biografia di Leonardo Fioravanti raccontata da lui stesso
L’Italia vista da una tavola da surf è uno strano posto fatto di contraddizioni e passione. Leonardo Fioravanti se la porta dietro, in giro per il mondo: una casa a cui torna poco, ma che continua a definire il suo tragitto. Lui rappresenta il Paese dove è nato (a Roma) e lo porta in posti mai frequentati prima, tra le onde della World Surf League, primo italiano a riuscirci. Ora vuole sfoggiare l’azzurro anche alle Olimpiadi, che proprio in questa edizione hanno aggiunto il suo sport al programma. Quel surf che Fioravanti fa uscire dal cinema e mette in acqua, dove lo si può capire.
L’onda perfetta esiste davvero?
«È un mito da romanzo e nessuno insegue sul serio sempre la stessa onda o, peggio, l’aspetta. A volte sei là fuori e ne cavalchi una straordinaria, quando torni la racconti e poi ne aspetti una ancor più gigante».
Il surf è una cultura?
«È uno stile di vita, non è solo uno sport che pratichi poi ti togli la muta e passi ad altro. Ti avvolge e ti stravolge. Ad alto livello lo puoi fare in certi luoghi specifici, tutti spettacolari. Quindi surfare è anche muoversi, conoscere, scoprire, parlare altre lingue e soprattutto devi essere capace di entrare in comunità diverse dalla tua e farne parte. Si passano mesi lontano non ci si può limitare a un albergo o si impazzisce».
Lei ha iniziato giovanissimo, le è pesato crescere in trasferta?
«Mi sono tuffato in ciò che amavo, quindi no. A 7 anni ho provato la tavola e c’era un feeling naturale, a 13 era già un mestiere. Ero troppo piccolo per farmi domande. Devo ringraziare mia madre che ha lasciato tutto per seguire me».
Prima che mestiere faceva?
«È stata sommelier e assicuratrice contemporaneamente, ma non mi riferisco solo al lavoro. Ho un fratello di 7 anni e mezzo più grande ed è stata dura separarsene. Anche mamma si è dovuta dividere. Devo tutto a loro, se non avessero fatto tanti sacrifici non sarei mai arrivato a questo punto».
Ora vive tra l’Australia e le Hawaii.
«Sì. E faccio base in Francia quando sto in Europa, lì si è stabilita anche mamma con il suo compagno e il fratello con moglie e nipoti. Tutta la banda».
In Italia mai?
«Poco perché in Italia non ci sono le onde giuste, ma c’è molto di me. L’anno scorso, mentre il circuito era sospeso, mi sono fermato sulle spiagge dove ho iniziato, a Cerveteri e ho ritrovato le persone e le sensazioni del primo minuto. Emozionante».
Che cosa l’ha conquistata delle Hawaii?
«Il rispetto delle loro origini, sarebbero americani ma non è certo la California, hanno riti profondi, un rispetto per le radici e per le tradizioni che invidio. La mia fidanzata è hawaiana».
Surfista pure lei?
«Sì, non professionista, ma quando le onde sono un po’ più piccole mi segue in mare».
E dell’Australia che si prende?
«Nel mondo sono considerati... "bogan", che starebbe per tamarri, ma sono solo molto pratici. Prendete il virus, sono stati rigidissimi e non si è diffuso. Appena arrivato a Sydney, sono stato chiuso in una stanza d’albergo 14 giorni. Monitorato. Alla fine non ne potevo più».
Come è stato surfare dopo?
«Bello, bello, bello. Ma anche sentire il solo sulla pelle è stato straordinario e poi ritrovarsi senza mascherina. Qui non la portano: niente virus in circolazione e facce scoperte».
In che cosa è rimasto italiano?
«In qualsiasi gesto. Mi dicono che faccio rumore e poi nel modo di mettercela tutta, di reagire, di parlare tanto. Segni di quanto ci teniamo. E per quanto ovvio, nella cucina. Piatto preferito, pasta all’amatriciana. Classico».
Cucina?
«Me la cavo. Non posso vivere in hotel, affitto degli appartamenti quando sono in giro. Cioè sempre».
«Point break» e «Un mercoledì da leoni» sono ancora fil che rappresentano il surf?
«Il vecchio surf, quello un po’ hippie e avventuroso. Io sono della nuova generazione, quella che va in acqua preparata, si allena, dorme bene, mangia sano e si dedica. Seguiamo un regime piuttosto rigido».
E la libertà, la sfida ai limiti e alle regole, sono solo narrativa?
«La libertà è un fatto non una sfida. Senta, gli hippie resistono ed è romantico che qualcuno leghi la tavola al tetto della macchina e vada a cercare se stesso, ma è un’avventura non surf. E io le regole vorrei fossero seguite da tutti. Soprattutto quelle per il rispetto dell’ambiente. Sto in mezzo all’oceano e ci vedo dentro la plastica. Un orrore a cui i miei coetanei si rivoltano. Quando parlo di stile di vita intendo anche questo».
Greta Thunberg è riuscita davvero a mettere l’accento sul problema?
«Ci ha dato un esempio concreto: una ragazza giovane che affronta problemi seri e si fa ascoltare. Noi next-gen abbiamo una voce molto determinata».
È favorevole al voto a 16 anni?
«Io ne ho 23 e non ho mai votato».
Schifato dalla politica?
«Troppo distante per capirla. Vivo tante realtà diverse e non posso dire di sapere davvero chi dice che cosa. È complicato seguire l’attualità, così mi tengo un po’ sulle mie anche se sulle questioni generali ho le idee chiare».
E in quelle come è messa l’Italia?
«Nello sport è messa malissimo. Gli altri sono avanti, ma tanto. Gli Stati Uniti, l’Australia, pure la Francia, almeno più di noi, insegnano sport a scuola. E lo legano al concetto di benessere, all’inserimento sociale. Da noi sono le piccole realtà che crescono i ragazzi in questo senso, senza un sistema. Altrove ti aiutano a trovare la disciplina per cui sei portato, ti accompagnano, la legano al percorso formativo e non perché tutti devono diventare campioni, ma per stare meglio. Concetto che in Italia proprio non passa. Siamo all’avanguardia sul fronte intellettuale, sul fisico ragioniamo come 50 anni fa. Continuiamo a giudicare lo sport superficiale, accessorio. Invece è essenziale».
Quante tavole ha?
«Per queste prime due tappe australiane del tour ne ho portate venti».
Ne servono tante?
«Si rompono spesso, è difficile trovare quella con cui ti muovi alla perfezione, quando la peschi, la usi pochissimo: solo in gara».
Parla alla tavola come fa Valentino Rossi con la moto?
«No. Parlo a me stesso, in competizione mi motivo. Un lungo monologo».
Che cosa le riesce meglio?
«Il tubo, quando passi sotto l’onda».
Che cosa si prova?
«Non si può spiegare, davvero, si può solo provare e io davvero consiglio ai genitori di mettere i loro bambini sul surf».
Quante ore al giorno si allena?
«In acqua dalle tre alle cinque, più la palestra tre volte a settimana. A letto presto, riposati. Sto molto attento».
Mondo sano e pure molto sponsorizzato, i marchi lo condizionano?
«Per fortuna, altrimenti sarebbe uno sport per super ricchi. Devi mantenerti fuori casa e una tavola da professionista costa 700 euro».
Non per tutti.
«Chi ha talento si nota e viene aiutato e io sto parlando dell’alto livello, surfare per piacere è tutta un’altra dimensione».
A maggio ci sono le qualificazioni per le prime Olimpiadi?
«Porteremo un po’ di azione e per l’Italia sarà più semplice scoprire che esiste il surf».
È uno sport senza distinzione di genere?
«Vedo più maschi in acqua, però se si scende di età è pieno di bambine. Anche in questo il surf è cambiato, prima era più chiuso».
Esordio a Tokyo, poi però ai Giochi di Parigi il surf sarà a Tahiti. Non proprio centrale.
«Purtroppo. Lo avrei voluto in Francia, non ci si sentirà dentro l’evento. Sarà come una tappa del nostro circuito, è un po’ come farci entrare ma tenerci alla larga».