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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Ritratto di Isaac Bashevis Singer

Ho conosciuto Isaac Bashevis Singer grazie all’economista Bruno Foa, che ne era cognato, avendo sposato Lisa, la sorella della moglie Alma Wassermann. Bruno era un brillante galantuomo di altri tempi, che era stato costretto a fuggire dall’Italia a causa delle leggi razziali: per lui Singer era innanzitutto una persona di famiglia, con il quale passava le feste religiose e andava a mangiare da Barney Greengrass, e solo in secondo luogo uno dei massimi scrittori del Novecento. Quando andai a New York per girare un documentario sulla cultura ebraica americana, gli chiesi la cortesia di aiutarmi ad ottenere un’intervista, e Bruno mi fissò un appuntamento nell’appartamento dello scrittore al Belnord, sulla 86ª strada, oggi ribattezzata Isaac Bashevis Singer Boulevard.
Al mio arrivo fui accolto da una donna di servizio che mi fece accomodare in salone con un sorriso: non era solo gentilezza, ma divertimento per qualcosa che stava succedendo in quel momento. Con la coda dell’occhio sbirciai Singer che rimproverava la moglie in una lingua misteriosa, credo lo yiddisch, e lei che replicava senza alcuna intenzione di farsi sottomettere. Lo scambio andò avanti per un bel po’, ed ebbi l’impressione che i toni si alzarono finché la donna di servizio non avvertì lo scrittore della mia presenza, il quale venne a salutarmi, indifferente al fatto che mi ero accorto della piccola scenata familiare. Subito dopo ci raggiunse anche Alma, e solo allora compresi che ognuno dei due stava rimproverando l’altro di aver smarrito il documento dell’Accademia svedese che attestava la vittoria del Nobel. Singer si dimostrò interessato alla mia passione per la cultura ebraica, e quando gli dissi che ero cattolico mi regalò un suo libro autografato, che conservo gelosamente, nel quale c’è il racconto Zeidlus il Papa. Mi citò il titolo in italiano, lingua di cui conosceva appena pochi vocaboli, a differenza delle altre che parlava correttamente: lo yiddisch, l’aramaico, il greco, il russo, il polacco, il tedesco, e ovviamente l’inglese. Era fiero di parlare anche lingue scomparse e si definiva un conservatore, anche in politica, ma alla maniera di Mahler: «Colui che non venera la cenere, ma tiene in vita la brace». Nel corso dell’intervista mi disse «i nostri Paesi sono bagnati dallo stesso mare», poi mi salutò con le parole «quando una persona tradisce qualcuno, tradisce in primo luogo sé stesso». Era un uomo non bello, ma di straordinario fascino, e con gli occhi profondi dell’intelligenza: parlava con un forte accento dell’Est Europa e la cadenza musicale di chi ripete espressioni millenarie. Era nato a Leoncin, un paese vicino Varsavia quando quei territori erano ancora parte dell’impero russo. Il padre Pincus Menachem era un rabbino chassidico e la madre Bathsheba era a sua volta figlia di un rabbino. Aveva una sorella chiamata Ester, che divenne una scrittrice firmandosi con il cognome Kreitman, e un fratello di nome Israel, che scrisse lo splendido Famiglia Ashkenazi: «Da lui ho imparato tutto», mi disse. Quando aveva solo quattro anni la famiglia si trasferì alla corte del rabbino di Radzymin, dove il padre divenne responsabile della Yeshiva: quest’esperienza ha dato lo spunto per Alla corte di mio padre e a La famiglia Moskat. Poi, dopo un terribile incendio che distrusse la Yeshiva, si trasferirono sulla via Krochmalna di Varsavia, che divenne l’ambientazione per molti suoi racconti. È in quella via, sporca, rumorosa ma piena di calore e di vita, che Singer conosce la piccola Shosha, alla quale è dedicato uno dei suoi romanzi più celebri. Ed è sempre lì che la ritrova molti anni dopo, ancora bambina, come se avesse «negato la morte». Dopo una breve esperienza in uno shtetl, il tradizionale villaggio ebraico, e il matrimonio con Runia Pontsch, da cui ebbe il figlio Israel, Singer si trasferì nel 1935 negli Stati Uniti, mentre il resto della famiglia scappò in Palestina per sfuggire alle persecuzioni naziste. I tre non si videro per oltre vent’anni, e in quel periodo Singer ebbe numerose amanti, fin quando non conobbe Alma, che sposò nel 1938: non è del tutto chiaro se fosse tecnicamente un bigamo, certo è che questa condizione è trattata in maniera tragicomica in Nemici. Una storia d’amore.
Sin da quell’anno si stabilirono nell’appartamento in cui l’ho incontrato, e dopo un primo momento di spaesamento cominciò ad amare New York come in seguito Miami, dove passava gli inverni. Scrisse sempre orgogliosamente yiddish e curò personalmente le traduzioni in inglese, definendo l’esistenza come «il romanzo di Dio», per poi aggiungere «lasciamoglielo scrivere». Poche volte ho conosciuto una persona che combinasse in ugual misura una fortissima spiritualità e un’altrettanta, divorante carnalità: era un santo peccatore, un seduttore impenitente e un bambino con la saggezza di un anziano. Aveva il senso della caduta e l’anelito del trascendente, e non era un caso che fosse intimo di Henry Miller, che lo considerava il più grande scrittore vivente. Era vegetariano e passava ore a cibare i piccioni sulla Broadway, convinto che in quei pennuti si reincarnassero le anime dei defunti: litigava spesso con il Padreterno, alla maniera di Giobbe, la sua era in realtà una forma alta e misteriosa di preghiera. E delle sue contraddizioni riuscì a fare la materia della sua grande arte: quando Barbra Streisand adattò per lo schermo il suo racconto Yentl, scrisse sul New York Times un articolo intitolato «perché Yentl è un brutto film», poi però teorizzo che «la gentilezza è tutto, nella vita».
Subito dopo il Nobel promulgò un decalogo per chiarire il motivo per cui scriveva per i bambini, e credo che nulla lo definisca come l’ultima motivazione: «I bambini non si aspettano che il loro scrittore preferito redima l’umanità. Giovani come sono, capiscono che egli non ha questo potere. Solo gli adulti hanno illusioni così infantili».