Specchio, 28 marzo 2021
Che fine ha fatto Alberto Malesani
Bentrovato, Alberto Malesani. Come sta vivendo il lockdown? «Molto male. Anche se ho la fortuna di poter lavorare all’aria aperta, sento tantissimo la mancanza della libertà. Gli amici. Le cene. Ho 67 anni e so bene che non c’è da scherzare con questo virus, ma non posso farci niente». Alberto Malesani è l’uomo che ha avuto la fortuna di vivere tre vite. Per 17 anni è stato impiegato alla Canon, dove gestiva un ufficio di import-export con sede a Verona. Per altri 27 ha fatto l’allenatore di calcio, partendo dalle giovanili del Chievo e arrivando a vincere una Coppa Uefa. Adesso si dedica al vino. Ha una piccola azienda sulle colline della Franciacorta, la terra dove è nato. Si chiama «la Giuva», come sintesi dei nomi delle figlie Giulia e Valentina, che lavorano con lui. La bottiglia più pregiata della loro cantina è un amarone. «L’ho chiamato Aristide, come mio padre. Ha fatto il saldatore in acciaieria, poi l’operaio. Sognavo di comprare una casa per i miei genitori, ma sono morti prima che riuscissi a mettere da parte un po’ di soldi. A loro devo tutto».
Delle seconda vita, quella più esposta ai riflettori, molti ricordano il carattere esuberante dell’allenatore e una conferenza stampa in Grecia, ai tempi del Panath?naïkos, in cui sbattendo i pugni sul tavolo ha ripetuto la parola «cazzo» all’incirca mille volte. «È un po’ triste essere ricordati per qualcosa di marginale rispetto a una carriera, ma ho capito che bisogna accettare anche questo tipo di cose, fanno parte della strada. E poi io sono fatto così, ho sempre cercato di vivere liberamente». Quando una persona famosa esce di scena, tutti fanno illazioni. Anche su Malesani giravano pettegolezzi. Dicevano che beveva troppo, mentre in realtà si stava curando con il cortisone per un problema di salute. «Lasciamo stare quelle cose, sono passate. Adesso so qual è stato il mio vero errore. Ero arrivato molto in alto quando ho deciso, per amore di Verona, di allenare l’Hellas. L’errore non fu solo la retrocessione di quell’anno, ma il fatto che nella vita non si deve mai tornare indietro. Me lo hanno detto diversi colleghi. Ho fatto una scelta sbagliata, avrei dovuto guardare avanti. E poi un giorno Rafa Benitez mi ha domandato: "Ma tu ce l’hai un agente? Ce l’hai un procuratore?". No, non ce l’avevo. I miei sbagli sono stati questi. Ma sono contento lo stesso».
Chievo, Parma, Fiorentina. Un centravanti indimenticabile, come Gabriel Batistuta. Ma mentre la vita numero 2 sfumava dentro l’ultima esperienza sulla panchina del Sassuolo, il seme della vita numero numero 3 era già germogliato. Era successo un giorno del 1999, quando a Bordeaux gli avevano fatto assaggiare un rosso freddo con delle ostriche. Quell’accostamento lo colpì. Così nacque l’idea della Giuva, che poi lo ha accolto quando il telefono ha smesso di squillare.
«Ci sono quattro cose che uniscono i miei percorsi. Le ho imparate ai tempi della Canon, dal mio presidente giapponese. Servono tutte e quattro: passione, spiritoso d’iniziativa, condivisione e prefissarsi degli obiettivi misurabili. Credo, nel mio piccolo, di essere stato in questo solco». Come va l’azienda nell’anno della pandemia? «Male. Non bisogna nasconderlo. È un brutto momento che coinvolge la filiera del vino. Produttori, ristoranti, enoteche: siamo tutti coinvolti. Ma ripeto sempre alle mie figlie che stiamo imparando più adesso che in dieci anni di vita comoda. Qui servono gli artigli. Qui bisogna resistere con creatività. Io credo a cicli continui della vita. Ora siamo in salita, altroché. Dobbiamo scollinare». Qual è stato il momento più felice da allenatore? «La vittoria della Coppa Uefa a Mosca. Mi tremavano le gambe, avevo la pelle d’oca. Auguro a tutti un momento così». E nella vita di campagna, quella con le mani nella terra? «La prima volta che ho visto una bottiglia della Giuva sul tavolo di un ristorante, il Dante di Verona. Passavo in bici con un amico e mi sono fermato a guardare. Erano due turisti abbastanza giovani, volevo vedere se la bevevano tutta. E sì, hanno finito quella bottiglia. È stato molto bello. Come la prima volta a San Siro». Quali amici restano? «Quelli del mio paese, San Michele Extra. Pochissimi nel mondo del calcio. L’allenatore Ezio Sella, qualche giocatore, nessun dirigente. Finché sei a un certo livello ti cercano tutti, poi spariscono. Ma anche questo fa parte del gioco».
Resta una domanda che non c’entra con il vino. Forse Alberto Malesani è davvero abbastanza altrove, adesso, per parlare di un tabù del mondo del calcio: l’omosessualità. «Non so perché ci sia ancora tanta chiusura su questo argomento. Tutti sappiamo che ci sono giocatori omosessuali, ma nessuno vuole dirlo. Questo mi dispiace. Perché bisogna essere liberi e vivere liberamente, bisogna rispettare tutti. Così mi hanno insegnato i miei genitori».