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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Intervista ai Maneskin

C’è un momento in cui la vita, dopo averti fatto soffrire quel minimo sindacale necessario ad ogni grande storia, si mette a girare per il verso giusto. E all’improvviso sei i Maneskin. Che in danese significa "Chiaro di luna" e in italiano sedici dischi di platino e la vittoria a Sanremo con "Zitti e buoni", slogan un po’ ovvio per un successo che in effetti non lo è. In mezzo a un sacco di pavoneggiamenti canori demenziali e mediocri, in definitiva di nessuna importanza, lo spettacolo di arte varia di questi quattro ventenni romani ti si deposita dentro e si mette a frullare nella testa e nella pancia anche se chi ascolta non ha voglia di lasciargli spazio. Fa da solo.
Ora, sintetizzando male una manciata di pregiudizi, la band ha un capo che si chiama Damiano, uno che si porta addosso un’energia comprensibile soltanto a chi abbia conosciuto l’esplosione istantanea della felicità. Rimbambisce gli ormoni di madri, figlie, nonne, padri e figli vestendo con disinvoltura l’ambiguità di una generazione che tra mille problemi non ha quello del gender. Nelle sue interviste tre domande su quattro girano attorno a quella dimensione lì.
Non sarà il nostro caso.
Poi c’è Victoria, bassista, che si è inventata tutto, l’anima della festa, mezza danese e mezza italiana (è per lei che i Maneskin si chiamano Maneskin, cercavano una parola che avesse un bel suono ed è uscita, appunto, Chiaro di luna), pallida, ribelle, pensieri rapidi. Suona un Danelectro – il basso sagomato ad arpa, avete presente? - come John Entwistle degli Who, ma se dovesse scegliere con chi tradire il suo gruppo direbbe gli Arctic Monkeys. Non tradirà.
È lei che prima ha incontrato Thomas, solista e creativo diviso tra una Fender Stratocaster e una Gibson e poi ha scelto Ethan, batterista gentile capace di citare Dylan Thomas e di non sbagliare un colpo anche quando gli piovono reggiseni sulle bacchette. Infine ha convocato Damiano, che con lei ha avuto una storia o forse no (i due ci giocano sull’enigma gossipparo) ed è bello tenersi il dubbio. Fin qui il quadro noto. Poi c’è l’ignoto, che raccontano in questa intervista, in cui la voce è quasi sempre corale, perché, in definitiva, il sistema Maneskin un capo non ce l’ha, anche se un leader sì. Due magari, perché Victoria è Victoria, ma il punto è che con tutta evidenza per i Chiaro di Luna la felicità è una torre trasparente. E nessuno di loro ha un solo motivo per mandarla in frantumi.
Siete fuori di testa, ma diversi da loro. Chi sono loro?
«Le persone che hanno ostacolato il nostro percorso perché eravamo una band, perché eravamo troppi e costavamo troppo, perché la nostra musica era incerta e dovevamo studiare. E poi da quelli che dicono cose terribili su di noi».
Sui social?
«Anche».
Che cosa vi dicono?
«Che facciamo schifo, che siamo froci o che Vic è lesbica, che se ci incontrano per strada ci ammazzano, che non sappiamo cantare, suonare, che non arriveremo mai da nessuna parte, che i nostri vestiti sono ridicoli. E che e che e che».
Perché lo fanno?
«Magari per invidia. O per frustrazione. O magari perché ci vedono liberi e loro non riescono a esserlo. Ma se invece di concentrarsi su di noi si concentrassero su di loro, forse ce la farebbero».
Credevo meglio la vita delle rock star.
«Ha i suoi vantaggi».
Poi ne parliamo. Fanno male gli insulti?
«No. Ci fanno abbastanza ridere. A volte ci caricano. Abbiamo talmente tante soddisfazioni che non ci rimane il tempo per le ripicche o per preoccuparci di chi ci vuole affossare. Siamo molto determinati».
Victoria: «Succedono anche cose divertenti. Mio zio, per esempio, dopo Sanremo ha scritto a uno che due anni fa aveva previsto che saremmo finiti nel nulla».
Per dirgli cosa?
«Hanno vinto 16 dischi di platino e il Festival, non male come nulla, no?».
Si dice spesso che la vostra generazione sia fragile. Considerando gli scambi sui social sembra più incattivita.
«Mai pensato che la nostra sia una generazione fragile. Magari è meno protetta, ma questo è un altro discorso. E non è nemmeno più aggressiva delle altre. Semplicemente è nata con i social in mano ed è più esposta alla cattiveria. Lo siamo noi e lo è chiunque. Ma forse lo schema va rovesciato. Proprio per la mole di insulti che finiscono in rete, per gli stereotipi omofobi o di genere che subisce, la nostra è una generazione resiliente. In ogni caso non tocca a noi il racconto della nostra generazione».
Resiliente. Bello. A voi è mai scappato, il dito?
«Per rispondere agli insulti? Se uno ti dice: ti riempio di botte, non è facile stare zitti».
Che cos’è per voi la provocazione?
«La capacità di creare una discussione. La provocazione fine a se stessa è esibizionismo. Noi cerchiamo lo scambio di opinioni. Le nostre scelte estetiche, il nostro abbigliamento, hanno sempre un motivo e persino dalla critica di uno scemo qualunque può venire fuori qualcosa di buono».
Il trucco. I vestiti. Renato Zero purissimo.
«Magari non ci stiamo inventando qualcosa di geniale, ma dopo Renato Zero quella modalità artistica si è un po’ persa».
Il vestito di piume di Achille Lauro a Sanremo è una provocazione o un vecchio numero di varietà?
«È difficile conoscere le motivazioni di un altro artista. Ma quel tipo di scelta è sempre positiva. Il nostro punto di partenza, per esempio, non è mai quello di rompere degli stereotipi, ma più semplicemente di essere noi stessi, di dire alle persone che se voglio possono essere più libere».
Non ho capito se Achille Lauro vi piace o no.
«È diverso da noi. Ma la qualità del suo lavoro è innegabile».
Ho letto un’intervista in cui Damiano dice: la sensazione più bella è vedere come ti guardano le persone quando sei sul palco. Come vi guardano?
«Con ammirazione, con felicità, con emozione. Con un trasporto che solo un concerto live è in grado di dare. Le persone si tolgono la maschera. Diventano autentiche. E noi con loro. È una grande festa. Ed è fighissimo. C’è la signora precisa che perde il controllo e salta come una pazza, la ragazzina timida che si lascia andare, il ragazzo a petto nudo. I loro occhi dicono tutto».
E i vostri cosa dicono?
«Anche noi siamo stati dall’altra parte e oggi è magnifico essere qui».
Sul palco vi lanciano i reggiseni come a Vasco Rossi. Vi imbarazza, vi fa ridere o vi lusinga essere degli oggetti sessuali?
«Non pensiamo che si tratti di una oggettificazione sessuale.È un modo per dimostrare affetto, per lasciare un ricordo. E quando ti arriva addosso un reggiseno grosso così pensi: ammazza quanta roba può stare lì dentro! Poi magari ci trovi scritto un numero di telefono».
Li usate quei numeri di telefono?
«Segreti da rock star».
Victoria?
«La festa è sempre divertente. La strumentalizzazione sessuale mai».
Piacevoli questi massaggi all’ego?
«Piacevoli. E se non fossimo un po’ narcisisti faremmo altro».
Vasco Rossi o Ligabue?
«Vasco».
Beatles o Rolling Stones?
«Con tutto il rispetto per i Beatles, Rolling Stones».
Meloni o Salvini?
«Oddio. No, dai, passa alla prossima domanda».
Renzi o Letta?
«Di nuovo, quella successiva».
Di politica non si parla?
«Noi parliamo a un sacco di gente col linguaggio della musica e in quel mondo pensiamo di essere credibili. Non avrebbe senso mettersi a fare discorsi diversi o andare a Ballarò, che titolo avremmo? Tanto più che ognuno di noi quattro ha la propria testa e le proprie idee».
Elisa o Pausini?
«Non sono esattamente i nostri punti di riferimento, ma certamente due grandissime. E complimenti a Laura per la nomination all’Oscar».
Fedez o Manuel Agnelli?
«Federico è un amico, Manuel è proprio la nostra tazza di tè».
Fedez prima vi ha giudicato a X Factor, poi vi ha sfidato a Sanremo.
«È stato bello ritrovarsi alla pari».
Voi un filo sopra, vista la classifica.
«Questo lo dici tu».
Cito uno dei vostri brani più famosi: "Quindi Marlena torna a casa che ho paura di sparire?". Voi avete paura di sparire?
«Come band no. Siamo sicuri dei nostri mezzi, del nostro progetto e della nostra competenza».
Damiano, quando scrivi bari?
«No. Ma la cosa bella dell’italiano è che con una frase puoi dire molte cose diverse. Nel caso di Marlena sparire ha più significati: c’è quello metaforico, ma c’è soprattutto quello sentimentale classico legato alla paura di perdere chi si ama».
Per voi è complicato innamorarsi?
«Una relazione classica è più complessa. Ma teniamo i piedi per terra. Abbiamo gli amici di sempre. Sappiamo distinguere le persone che cercano noi da quelle che cercano il personaggio. Ma sì, non è semplice».
Gli Who in "My Generation" cantano: I hope I die before I get old, a quasi 70 anni sono ancora lì che cantano.
«Perché non sono vecchi, sono dei 70enni non anziani. Come Vasco».
Damiano, tu come ti vedi da vecchio?
«Scavato, un po’ scheletrico che faccio le mosse sul palco e poi le pago con i dolori alle ossa».
Insisto con te. Hai anche detto: sono uscito sbagliato. Perché?
«Era un’affermazione legata al mio percorso scolastico. Io penso di essere una persona non scolarizzata e non scolarizzabile. Il percorso accademico non è il mio. Il mio problema non era lo studio, ma la personalità. Avevo rapporti difficili con i professori. Non sopporto le prevaricazioni e l’abuso di potere. E non riuscivo a stare zitto».
È vero che vai in terapia?
«Sì».
Posso chiederti perché?
«Sono problemi personali di cui non è facile parlare così, ma in generale penso che sia un percorso che fa bene. Serve a riconoscere le proprie emozioni senza buttarle sotto un treno. La felicità, la rabbia, la tristezza, l’ansia. Il confronto con un mondo pieno di stimoli, di decisioni da prendere, il bisogno di affrontare tutto in modo equilibrato».
Roby Facchinetti ha detto: i Maneskin sono i nuovi Pooh. Un complimento o un anatema?
«Un complimento, soprattutto detto da lui. Uno può fare le considerazioni che vuole, ma poi deve pensare ai milioni di dischi che hanno venduto e al gigantesco quantitativo di cappelli strappati per loro».
Orietta Berti vi ha chiamato "Naziskin". Vi ha fatto ridere?
«Sì. Molto. Riderissimo. Diciamo che siamo abbastanza lontani dai naziskin. Ma Orietta è iconica».
Damiano, tu scrivi i testi delle vostre canzoni, chi è per te un poeta?
«Domandone. Direi che è colui che riesce a esprimersi attraverso qualunque tipo di arte. A comunicare quello che ha dentro. Ecco, questo è un poeta, un gran comunicatore».
Mi citi un verso a memoria?
«Mi illumino di immenso".
Troppo facile. Te ne cito uno io: "in casa mia non c’è Dio. Ma se trovi il senso del tempo risalirai dal tuo oblio". Lo hai scritto tu. Me lo spieghi?
«La prima parte vuole dire che quello che faccio non è inculcato dall’alto, è una passione molto umana. Per quello che riguarda il tempo – sempre che Elon Musk non trovi la formula della vita eterna – la chiave è: ne abbiamo poco e se riusciamo a capire come usarlo rendendoci utili allora risaliamo».
Quando hai capito di avere una voce speciale?
«In verità da bambino dovevo avere un grosso malfunzionamento dell’orecchio perché ero convinto di cantare benissimo e invece non ero capace. Ero impreciso e avevo una voce strana. Poi, un’estate torno dal mare e scopro che la mia voce si era sistemata davvero. Avevo una salinità non male».
Canteresti mai con Al Bano?
«Certamente sì. Sarebbe assoluto, totale. Una figata».
Maneskin, è bello essere ricchi?
«Brutto non è, ma non è che poi parliamo di chissà che».
Come vi piazzate a all’Eurovision?
«Vincitori onorari».
Vago.
«Andiamo lì per dare il massimo. E soprattutto per il pubblico».
Che cos’è il rock per voi?
«Sincerità. Essere diversi perché lo si è davvero»