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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Da Gramsci a Navalny, torturati con l’insonnia

«Non potendolo affliggere e maltrattare in altro, si fecero ad impedirgli il dormire, osservando con ogni diligenza quando egli preso veniva dal sonno, e cercando con ogni artificio di tenerlo sempre scosso e svegliato, finattantoché mancatogli affatto in questa guisa il vigore, se ne morì». Il racconto di Plutarco nelle Vite parallele sull’orribile condanna nel 166 a.C. di Perseo, l’ultimo dei re macedoni preso prigioniero, trascinato a Roma e confinato ad Alba Fucens, spiega bene quanto la tortura non consista affatto nella sola applicazione dei più barbari degli strumenti di coercizione. Anzi. 
Certo, nelle nostre teste dalla notte dei tempi, ricorda Renzo Paternoster ne La politica del male (Tralerighe editore), l’associazione immediata è coi supplizi suggeriti da Aristofane amaro ne Le rane: «Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l’aceto nel naso, ammassagli mattoni sul petto, appendilo per i pollici…». E per noi italiani è difficile immaginare qualcosa di più spaventoso di quanto, come scrisse Alessandro Manzoni in Storia della colonna infame, fu fatto al «Barbiero Gian Giacomo Mora et il Commissario Guglielmo Piazza», i due poveretti accusati nel 1630 di essere «untori» della peste a Milano: «Quell’infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate…». 
Una crudeltà bollata come bestiale, anche se non c’è belva nel mondo animale così sanguinaria, e oggi ufficialmente rinnegata (a parole: vedi Giulio Regeni o Jamal Khashoggi) perfino nelle dittature più violente e mozzorecchi. Eppure proseguita e coltivata nelle forme più efferate (si pensi ai topi vivi inseriti e cuciti del ventre di donne accusate di stregoneria) per due millenni nonostante Cicerone già nel I secolo a.C. avesse spiegato quanto avesse torto il retore ateniese Isocrate nell’idea che «per sapere la verità nulla è più sicuro del tormento». No, sostenne il grande oratore romano: «Spessissimo molti hanno mentito sotto la tortura per sfuggire il dolore e hanno preferito morire affermando il falso piuttosto che soffrire». 
Ma è davvero meno ributtante e disumano consumare una persona giorno dopo giorno, tenendola all’infinito appesa come un capretto al gancio d’un mattatoio giudiziario nella vana attesa di un processo continuamente rinviato, come accade da oltre un anno in Egitto a Patrick Zaki? 
Qual è la differenza tra la garrota e la condanna a morte del gesuita John Ogilvie che nel 1615, scrive George Riley Scott nella sua Storia della tortura (Mondadori), fu accusato di tradimento e «condotto a Edimburgo dove fu tenuto sotto stretta sorveglianza, malnutrito da una guarnigione di uomini per otto giorni, e gli fu negato a forza il sonno, con un tale turbamento della mente che lo portò ad delirium»? O le barbare detenzioni inflitte fino all’Ottocento nelle carceri francesi dove c’era una souricière, tana per topi, descritta ne Gli strumenti di tortura di Michael Kerrigan (L’Airone) come una cella senza luce di 91 centimetri quadrati ancora più terrificante della Little Ease nella torre di Londra di 1,19 metri quadrati? Una bara verticale. Dove sarebbe stato rinchiuso nel 1605 per quattro infernali giorni Guy Fawkes, uno dei congiurati implicati nel complotto per restaurare la monarchia cattolica. 
Sono trascorsi secoli da quando gli aguzzini decisi a torturare «i colpevoli» per indurli «a confessare il vero» (così dicevano le leggi infami di Luigi XIV nel 1670) scoprirono che la tortura senza sangue, tenaglie e ferri incandescenti poteva essere perfino più efficace per estorcere confessioni. Già nel 1645, secondo Brian Levack, autore de La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell’Età moderna (Laterza), i sedicenti cacciatori di streghe Matthew Hopkins e John Stearne «poterono utilizzare alcune forme di tortura, principalmente il tormentum insomniaeper estorcere confessioni alle streghe sospette». Né andò diversamente, meno di un secolo fa, ad Antonio Gramsci. 
«Bisogna impedire per vent’anni a questo cervello di funzionare», avrebbe detto il pubblico ministero che ne chiese la condanna. In realtà, precisa il saggio La testa del rivoluzionario di Francesco Giasi, non vi è traccia delle parole esatte negli incartamenti processuali, ma quella resta «la frase più ricorrente per stigmatizzare la volontà» del Duce. «Per ordine di Mussolini, ogni notte, durante anni e anni», scriverà Palmiro Togliatti su «Lo Stato Operaio», «le guardie carcerarie entravano rumorosamente, due, tre volte, nella cella di Gramsci per privarlo del sonno e ridurre allo stremo le sue energie fisiche e nervose». «Le porte (che pesano circa un quintale l’una) erano aperte e chiuse secondo il ritmo di una festa coi mortaretti», si legge in un esposto al direttore generale degli istituti carcerari firmato il 27 giugno 1933 dal grande intellettuale recluso a Turi, «al fracasso dei catenacci seguiva un boato d’apertura con percossa contro l’angolo del muro e quindi la violenta chiusura che rimbombava come un colpo di cannone…». Le lettere alla cognata Tatiana erano ancora più avvilite: «Carissima, sono mezzo abbrutito o forse completamente abbrutito per il non poter dormire e riposare la notte: in certi momenti mi pare di diventar pazzo. Perciò sono poco sicuro di me stesso e mi nascono dei dubbi, delle incertezze, degli svanimenti di memoria e di volontà».  
Come immagina in 1984 anche George Orwell («Gli arresti venivano eseguiti sempre di notte: il risveglio improvviso e violento, la luce delle torce elettriche che abbagliava gli occhi…») quello è da sempre l’obiettivo: portare i detenuti alla pazzia. «I reali confini dell’equilibrio umano sono molto limitati e non occorre affatto il cavalletto o il braciere per ridurre l’uomo medio a uno stato d’irresponsabilità», scrive in Arcipelago Gulag (Mondadori) Aleksandr Solženitsyn, usando per decine e decine di volte le parole sonno, dormire, sveglia. Dominanti della tortura dei lager sovietici: «L’insonnia è un gran bel mezzo di supplizio, non lascia alcun segno visibile e neppure un pretesto per lamentele, caso mai ci fosse un’ispezione, peraltro mai capitata…». Parole che riemergono proprio oggi via Instagram, sei decenni dopo e senza più il comunismo, nella denuncia da un altro carcere russo di Aleksej Navalny: «Otto volte ogni notte si avvicina una guardia, accende il sistema Dozor (videosorveglianza) oppure una telecamera e dice ad alta voce: “Viene rilevata la presenza del condannato Navalny”, svegliandomi ogni volta. Si applica così di fatto nei miei confronti la tortura della privazione del sonno». 
Non c’è dittatura, dalla Cina maoista all’Argentina fascista, che non abbia stroncato gli avversari così. Ma perfino democrazie quali gli Stati Uniti, come confermano vari manuali della Cia («Manipolazione prolungata del tempo; orologi che segnano l’ora sbagliata, in avanti o indietro; somministrazione dei pasti in orari strani; interruzione dei ritmi sonno/veglia; disorientamento nello stabilire il giorno e la notte») denunciati dai giornali americani e poi dallo stesso Barack Obama, hanno violato ogni regola. 
C’è poi da stupirsi se, come incessantemente denuncia Amnesty International, lo stesso Patrick Zaki è costretto da mesi e mesi, nel carnaio di uno stanzone affollatissimo, a «dormire» per terra, senza un materasso, la schiena a pezzi, schiavo (se glieli danno) degli antidolorifici? Cos’è, se non una tortura? Proprio su questi temi, nel giugno 1961, con un articolo sul «Times» di Peter Benenson, inorridito dalla repressione degli studenti nel Portogallo di António de Oliveira Salazar, nacque Amnesty: «Aprite il vostro quotidiano un qualsiasi giorno della settimana e troverete la notizia di qualcuno, da qualche parte del mondo, che è stato imprigionato, torturato o ucciso poiché le sue opinioni e la sua religione sono inaccettabili per il suo governo». Sono passati sessant’anni. Invano.