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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Su "Napoleone in venti parole" di Ernesto Ferrero

Da uno dei suoi innumerevoli scritti, spunta una frase in cui Napoleone Bonaparte si definisce «il più schiavo degli uomini» perché obbligato a obbedire a un padrone senza cuore: «Il calcolo degli avvenimenti e la natura delle cose». Il pensiero svela la passione dell’imperatore dei Francesi per l’informazione, la statistica e la contabilità, i libri di cifre che definisce la letteratura più cara. Ama i dettagli, il Grande Accentratore, vuol sapere tutto di amici e nemici. «Non c’è un genio che mi rivela di colpo – concede – è che ci penso, ci medito sopra». Studia cifre e notizie, ne esige di ogni sorta, le raccoglie e le ruba, le organizza e le digerisce. Poi decide, rapido come un’aquila. Sui comunicati e l’analisi costruisce l’Empire. Che perde, fra l’altro, quando la qualità dei dispacci viene meno, menomando anche la capacità di intuizione e d’azione del grande condottiero.
Il metodo di N. è lo stesso che ha ispirato Ernesto Ferrero nella stesura di Napoleone in venti parole, formidabile saggio sull’epopea del controverso statista corso che per una ventina di anni fu padrone dell’Europa. Lo scrittore e saggista torinese, già autore del fortunato N. tessuto sulle vicende dell’imperatore all’Elba, si è divertito assai, così almeno sembra, a ricostruire e riordinare il profilo e le imprese dell’uomo che ribattezza «Dr. Bonaparte e Mr. Napoleone», superba creatura dalla doppia faccia di statista lungimirante, condottiero con pochi pari, illuminante riformista, presunto «onnisciente, onnipotente e onnipresente», ma anche volgare misogino, brutale massacratore, despota spietato e, ogni volta lo ritenesse necessario, autocrate privo di scrupoli nel violare ogni regola. Un sovrano di princìpi anche saldi, in sintesi, persuaso tuttavia dell’esigenza di ricorrere a misure estreme – incluse le peggiori - per affrontare circostanze speciali, come se il fine giustificasse sempre i mezzi.
Meditandoci su pure lui, Ferrero racconta da par suo «l’inafferrabile conquistatore» (Puskin) e, strada facendo, solleva una serie di questioni di straordinaria modernità. Si chiede anzitutto quanto sia il popolo disposto a pagare in termini di libertà per seguire l’Eccezionale e sostenere un «uomo della Provvidenza», per dirla con accento vaticano. E dove finisca la normalità e cominci l’essere supremo che tutto sa e vede, e a tutto provvede. Ancora, se il dispotismo illuminato sia un prezzo sopportabile per la gloria, la Grandeur, sia pur effimera, ma anche per la buona amministrazione.
Ragiona su N., Ferrero, sino a notare che inquietante, in tutta questa vicenda, è vedere che gli uomini del terzo millennio non siano diversi da quelli di duecento anni fa. Prima, hanno accolto gli Stalin e gli Hitler, i Franco e i Mussolini. Adesso adorano i Putin, i Bolsonaro e gli Xi. I popoli vogliono ancora leader impetuosi, come prevedeva Machiavelli. E si registra, nota Ferrero, «il bisogno di credere ingenuamente nel capo carismatico senza essere capaci di giudicarlo, nella delega totale, nel mito più forte di ogni critica razionale». Ecco la Storia come ripetizione degli stessi miti e degli stessi errori. Vero o falso? Vero.
Nello scorrere le venti parole della biografia che anticipa le inquiete commemorazioni del bicentenario della morte a sant’Elena del «piccolo caporale corso» – che piccolo-piccolo proprio non era (168 cm) - la tentazione di essere affascinati dall’imperatore è forte. Ferrero racconta N. con la serenità di chi parla di un vecchio amico uscito un attimo di casa per passeggiare lungo il fiume. Il tono è familiare, autorevole, mai accondiscendente. Riga dopo riga emerge il contorno preciso di uno statista che disprezzava mediocrità e compromesso, che rifiutava gli eccessi, che viveva un’esistenza regolare, basata sulla convinzione di conoscere gli uomini, di saperli gestire, persuaso che la sincerità non fosse qualcosa su cui contare, alla stregua della fisiognomica. Aveva un senso per i popoli. Li comprendeva. Definì gli italiani «molli, superstiziosi e vili», aggettivi che oggi suscitano un sorriso amaro.
N. s’impone alla fine come uomo della nostra era e forse di tutte. Ferrero lo proietta nel presente come oracolo del rigore di bilancio, ne sottolinea l’interesse per le think-tank (il Consiglio di Stato), l’approccio Multitasking (la gestione personalizzata del Paese), il nazionalismo dello slogan «la Francia prima di tutto» offerto ai Trump e Salvini di ogni generazione. Quando l’imperatore sentenzia che la politica «non è altro il calcolo delle combinazioni e delle possibilità», attesta l’esigenza di un governo che diremmo basato sugli algoritmi. Riforma, studia, lavora, decide. Vuol vedere tutto e sapere tutto. «Tragicamente solo», nota il biografo, particolarità che finirà per costargli cara.
In effetti, gli si rivoltarono contro anche i più fedeli. «La rivoluzione fatta uomo» (Dumas), cadde davanti al Duca di Wellington e all’accentramento radicale. Il gigantismo fu il seme finale dell’autodistruzione. Lo indebolirono il verticismo e la crisi economica, sinché accettò il martirio paragonandosi a Gesù Cristo. Eroe negativo, chi ha dubbi? Uno da studiare più che da emulare. Se non fosse che il suo mito è riuscito a trasformare la più grande delle sconfitte – a Waterloo nel 1815 – nella battaglia di cui si ricorda soprattutto un nome e non è il vincitore.
«Aveva ragione Chateaubriand – confessa lo scrittore torinese - i francesi (gli uomini) non amano affatto la libertà, il loro unico idolo è l’uguaglianza, il livellamento di gregge, l’uno vale uno». Se è così, ed è così, il 5 maggio di lutto bisecolare sarà festa diffusa. «Il caso Bonaparte resta un fascio di spine, di domande imbarazzanti, alla cui risposta non basta il buonismo politico». Le venti parole orchestrate da Ferrero attirano come una calamita e suggeriscono le chiavi per capire, e forse risolvere, il rapporto con N. Ognuno sceglierà la sua conclusione, dopo in viaggio nel quale è facile imparare che, Bene o Male, nel mondo degli uomini ogni tempo è il nostro tempo.