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 2021  marzo 27 Sabato calendario

È morto l’ingegnere della Philips che inventò registratore portatile, musicassetta e cd

Perdiamo pezzi di Novecento, noi che del Novecento siamo figli, e ne perdiamo così tanti e così in fretta da non accorgercene più. Il lavoro cambia, si fa rarefatto, le auto ci conducono loro in un ronzio elettrico, la musica perde ogni supporto: se n’è andato all’età del secolo, 94 anni, un genio dal nome sconosciuto, Lou Ottens, uno che ci ha cambiato sul serio la vita a noi figli del Novecento. Ottens era un ingegnere della Philips capace di immaginare e di creare il primo registratore portatile, che però andava a bobine, quelle rotellone di nastro inciso; bello ma scomodo, e così anni dopo, nel 1963, Lou ebbe un’altra prodigiosa illuminazione e partorì l’audiocassetta, quel rettangolino magico con dentro la tua voce e quella di chi volevi. Piccola, compatta, «la cassettina» segnò un’epoca, poi due, poi tre: certo, il vinile aveva il suo fascino, ma vuoi mettere la cassetta da portarti nel mangianastri, anche in macchina?
Era un rituale la cassetta, bisognava saperci fare: ci sfidavamo, noi ragazzi del «Secolo Breve», a chi otteneva copie più immacolate, qualcuno si lanciava pure nei mixaggi da deejay. «Me la fai una cassetta?», e fioriva una mitologia di canzoni, di compilation che poi erano le moderne serenate, se uno voleva conquistare una fanciulla doveva solo azzeccare la raccolta giusta e poi consegnargliela in una cassetta con il nastro rosa.
La tecnologia galoppava, gli stereo diventavano sempre più sofisticati, apparecchi a doppia piastra con testine di materiali sconosciuti ed evocativi, le stesse cassette si trasformavano nella pietra filosofale e tutti ci sentivamo un po’ come Calandrino nel Mugello: nastri al magnesio, al manganese, al doppio tungsteno. Con risultati a volte atroci, altrimenti sublimi.
Arrivò anche il walkman, l’apparecchietto con le cuffiette da passeggio, e i più esigenti disprezzavano le cassette originali che si compravano in negozio, preferivano acquistare un disco di vinile nero e registrarlo con le proprie alchimie e sentirselo in beato Nirvana in mezzo al traffico, come Ernesto Calindri col Cynar.
Stagioni epiche, finché Ottens, suo malgrado, uccise la sua creatura escogitandone un’altra, il compact disc, sempre per Philips. Quel dischetto dai riflessi iridescenti ci mise poco a imporsi, la sua resa era perfetta anche se, a detta degli audiofili, troppo fredda; ma non perdeva nastro, non si attorcigliava, durava (dicevano, ma non era vero) in eterno. Però faceva tutto lui, o meglio faceva il computer, la magia dell’homo amanuensis che suscitava suoni da suoni andava completamente perduta. Il cd ha avuto vita breve, una trentina d’anni, poi è stato giubilato da una tecnologia sempre più galoppante e oggi la musica non ha più corpo, solo codici, s’infila nello smartphone, nel portatile, nella «nuvola» di Internet, in un millimetrico quadratino di scheda ce ne stanno a migliaia di canzoni. E questo, ancora una volta, è molto comodo, ma leggermente inquietante. Perché pare davvero il capolinea, dopo la musica liquida o volante, che è sempre con te, che non la puoi afferrare, cosa resta? Forse solo un microchip da infilarti nel cervello, così non sarai più tu a suonare le tue canzoni preferite ma loro a suonare te.
Di cassette ne sono state vendute 100 miliardi in 60 anni e, come tutte le cose belle, si fatica ad archiviarle: ancora oggi gli snob registrano o consumano musica su quel supporto e lo stesso vinile periodicamente vive le sue riscoperte. Ma è chiaro che si tratta di una riserva indiana di nostalgici, di figli del Novecento non ancora pronti a morire insieme ai loro feticci. Oggi i«Millenials» non perdono tempo a costruire raccolte per l’amata, la mandano direttamente sulle piattaforme digitali e dicono: scegli quello che ti pare, tanto c’è tutto. E in quel tutto non si trova niente, perché manca l’anima che si nascondeva in una cassettina fatta con amore, con intuizione, con classe.