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 2021  marzo 27 Sabato calendario

Storia di Flannery O’Connor

«C’è il Sud dei romanzi di Faulkner», scrive Mario Praz in un saggio intitolato Racconti del Sud («Studi americani» n. 2, 1956). «È il sud in cui echeggiano squilli lontani dell’epopea della Guerra di Secessione; ma in cui c’è pure tanto del vero Sud squallido e poetico: senonché il Faulkner vi ha poi tessuto sopra e intorno l’aggrovigliata allucinazione del suo stile, e anche quel Sud lì è finito per diventare irriconoscibile, come un relitto caduto in fondo al mare e rivestito da successive stratificazioni di fauna e di flora marina.
Poi c’è il Sud fiabesco e perverso di Truman Capote, il Sud isterico di Tennessee Williams, quello che tutti conoscono dal Tranvai che si chiama Desiderio, ma se domandate a un americano del Sud (di quel Sud che è un paese di un’estensione assai maggiore di quanto non s’immaginerebbe, poiché comprende anche il Tennessee e di fatto ogni stato a mezzogiorno di Washington), se domandate a questo americano quali autori gli sembrino veramente rappresentativi del Sud, che rendano la atmosfera e gli ambienti di laggiù in modo adeguato e fedele, vi farà» il nome, tra pochi altri, «di Flannery O’Connor».
Più di sessant’anni dopo, quando di quel Sud restano soltanto novelle e romanzi che più nessuno legge e qualche vecchio film, Fernanda Rossini racconta in una brillante e appassionata biografia la storia di Flannery O’Connor e della sua Dixieland cattolica. Scomparsa giovanissima, autrice di due romanzi, La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti, e d’alcune novelle considerate classiche fin dalla loro prima apparizione su rivista, Flannery O’Connor pensava che la sua breve vita fosse «priva d’interesse».
Non aveva torto, ma neanche ragione. A parte una breve permanenza a New York, a parte un pellegrinaggio di pochi giorni a Lourdes e una breve stagione nella comunità d’artisti di Yaddo, a Saratoga Spring, dove conobbe il poeta Robert Lowell; a parte una foto con Pio XII e la convivenza con una madre affettuosa e tirannica; a parte i premi letterari e qualche conferenza in giro per gli stati del Sud; a parte, infine, un’unica apparizione televisiva all’albeggiare del quinto potere; ecco, a parte tutto questo, effettivamente a Flannery O’Connor non capitò mai niente di memorabile. O così si consolava lei, consumata com’era da una rara, implacabile malattia devastante: il lupus eritematoso sistemico, un morbo autoimmune tuttora molto minaccioso e dal quale, all’epoca, non c’era scampo. Suo padre ne era morto quando lei era bambina e, non appena il lupus azzannò anche lei pochi anni più tardi, la giovane romanziera seppe cosa si stava preparando.
Visse sempre in Georgia, a Milledgeville, nella fattoria di famiglia, nota come «Andalusia». Era lì che curava le sue galline, i suoi pavoni e le oche di cui era un’allevatrice entusiasta. Ed era sempre lì, nella sua stanzetta al primo piano, che limava ossessivamente le sue storie insieme grottesche, comiche, devote e sottilmente (se non decisamente) splatter. Ma soprattutto era lì che rifletteva sui vasti imperscrutabili misteri della fede (né gaudiosi né gloriosi ma tenebrosi) di cui la sua opera è in qualche crudo e bizzarro modo la versione illustrata. Fu una vita priva d’avvenimenti, niente relazioni sentimentali, nessuna avventura esistenziale, senza le tipiche spericolatezze del romanziere americano, ma lei la visse sotto la luce di tragedia o meglio d’apocalisse del lupus e dei misteri della fede, non meno implacabili e feroci.
Scrivere e pregare erano per lei attività analoghe, e forse sostanzialmente la stessa cosa. Incalzata dalla malattia, si concentrò sulle sue storie – plot disturbanti, di cui si rideva a denti stretti. Attraverso immagini e metafore si sforzava di mostrare gli abissi della teologia, del tomismo, in ultimo anche dell’evoluzionismo cosmista di Teilhard de Chardin. Agì come se per scrivere non ci fosse altra ragione che salvarsi l’anima prendendo «a sberle» (così diceva) il lettore – il solo modo onesto, per uno scrittore, d’amare il prossimo suo.
«Se molta letteratura degli Stati Uniti» – scrive ancora Praz – «è sotto il segno puritano della Nuova Inghilterra, quella del Sud si direbbe sotto il segno d’una Nuova Irlanda: un’Irlanda tropicale, dove la natura è melanconica ma calda e lussureggiante, e i coboldi sono negri, e in ogni famiglia di bianchi (bianchi di solito decaduti) c’è lo scheletro nell’armadio; un clima dove il surrealismo non è più una pianta di serra, ma cresce naturalmente all’aria aperta. Di questa Irlanda dei Tropici Flannery O’Connor è una delle voci più originali. Nulla in lei dell’esasperazione frenetica di Faulkner, che adatta a personaggi spesso rudimentali il delicato movimento d’orologeria d’una psicologia decadente».
Romanziera cattolica nella Bible Belt protestante, Flannery O’Connor vive i suoi ultimi anni nell’America delle lotte (o meglio delle guerre) per i diritti civili, dell’assassino di John Fitzgerald Kennedy, delle ultime imprese del Ku Klux Klan. Era razzista, come si era razzisti per destino culturale e religioso nel Sud degli Stati Uniti. Non c’era semplicemente altro modo, del resto, di giustificare segregazione e linciaggi che postulando l’esistenza d’una «razza» inferiore. Anche Flannery O’Connor, baciapile, una messa al giorno, finse di credere in questa spaventevole chimera. Rifiutò di ricevere il romanziere nero James Baldwin a casa sua; le piaceva, in compenso, lo stile di Cassius Clay, non ancora Mohammed Alì. Cattolica disciplinata, ma curiosa, chiese «all’amico padre McCown» di procurarle il permesso di leggere Sartre e Gide, autori all’Indice. Morì trentanovenne il 3 agosto 1964. Stava sorgendo l’alba delle nuove Americhe, del pop, delle controculture, e lei si perse disgraziatamente lo spettacolo.
«Qui e altrove», continua Praz, «si sente che l’antenato di tutta questa narrativa grottesco-patetica, e in fondo assai pessimista, è l’autore di Huckleberry Finn, Mark Twain. Ciò che della O’Connor s’indugia nella memoria del lettore, oltre alle situazioni e all’atmosfera, son certe sue icastiche precisazioni d’uno stato d’animo, d’un ambiente. La ragazza scema: «Di tanto in tanto la sua espressione placida si mutava in un piccolo, isolato, furtivo pensiero, come un filo d’erba nel deserto». Il riso d’un cieco: «La risata risuonava come se venisse da qualcosa legato dentro un sacco». Lo sguardo del ragazzo già stanco alla soglia della vita: «Lo sguardo dcl ragazzo era antico, come se egli già sapesse tutto e desiderasse dimenticarlo». Un paesaggio serale: «Dinanzi a loro il cielo era grigio, ed essi eran rivolti verso una luna grigia, trasparente, poco più marcata del segno d’un pollice, e completamente priva di luce».
Fernanda Rossini, Flannery O’Connor. Vita, opere, incontri, Ares 2020, pp. 360, 18,00 euro, eBook 12,99 euro