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 2021  marzo 27 Sabato calendario

Sharon Stone si racconta

Ho girato spot pubblicitari in cui dovevo pronunciare parole come slimtintlipgloss mentre assestavo un colpo da maestro a biliardo, mettendo la palla in buca con un doppio rimbalzo. Convocarono un esperto di Palla 8 per insegnarmi quel tiro. Sono stata ricoperta da capo a piedi con un trucco scuro da egiziana mischiato a caffè, mentre giravo intorno a una piscina in bikini per la Coppertone: «Abbronzatevi, non bruciatevi» dicevo, e il cameriere cadeva in acqua. Una persona era incaricata di tenermi pulite le piante dei piedi per evitarmi di soffocare, per via dei pori otturati da quella sostanza.
Ho indossato costumi da bagno a Jones Beach in inverno e pellicce sulla Seventh Avenue in estate. Non sfilavo in passerella, ero troppo bassa e formosa. Ero convinta di essere in sovrappeso e non abbastanza elegante. Ma alla Ford mi passavano incarichi speciali. Eravamo sulle copertine, sui cartelloni e negli spot pubblicitari, avevamo uno stipendio più che decente e l’accesso libero allo Studio 54. All’epoca, in un giorno potevo guadagnare persino cinquemila dollari, a volte pure il doppio. Inoltre, avevo finalmente risolto il problema della cicatrice sul collo.
Un giorno, avevo quattordici anni, stavo cercando di domare scalza una cavalla selvaggia nel campo dietro casa nostra, mentre mia madre stendeva le lenzuola sulla corda del bucato. La bestia si era innervosita e aveva cominciato a scalciare e sgroppare, a sbuffare e a girare in tondo. Io tenevo duro e lottavo come una matta per calmarla, insomma, una volta domata ci avrei ricavato venticinque dollari a venderla a una famiglia di campagna come animale domestico. Non mi ero resa conto che stavamo per finire contro le lenzuola bagnate appena stese finché la corda non mi ha colpito al collo e i piedi mi sono scivolati dentro le staffe. Non riuscivo a scendere né a calmare quella maledetta cavalla, che continuava a impennarsi. A un certo punto Dot, alzando gli occhi, si trovò di fronte alla scena di un’enorme cavalla imbizzarrita con sopra sua figlia sul punto di essere decapitata. In una sorta di slancio materno superforzuto spinse via l’animale allontanandolo dal filo. Ma persi la presa sulla staffa destra e caddi sul lato sinistro. Stavo per essere trascinata via, quando mia madre mi afferrò prontamente la gamba, la liberò e poi si buttò all’indietro, stremata. Mi alzai in piedi e corsi in casa, mi guardai nello specchio del soggiorno, appeso sopra il vecchio mobile stereo di legno con le casse incorporate. Avevo il collo aperto da un orecchio all’altro, la camicia era imbrattata di rosso e il sangue continuava a uscire. Insomma, l’unica cosa chiara era che non potevamo risolverla in modo semplice. Dot mi fissò sulla soglia, poi si girò, andò in cucina e chiamò mio padre, che era al campo da golf, ma lui stava già tornando a casa. Aveva intuito qualcosa, come succede ai genitori. Entrò nel vialetto sbandando sulla vecchia Chevrolet, mentre io ero seduta, immobile, sulla poltrona malmessa di pelle verde della sala, a fissarmi le mani. Mi portarono all’ospedale, ma nessuno sapeva cosa fare e mi lasciarono così, per ore. Alla fine mio padre prese un dottore per il bavero e lo scaraventò nella stanza dove eroin attesa di essere medicata, ancora sanguinante e sul punto di collassare sulla barella. Il medico scivolò e andò a sbattere contro la parete opposta all’entrata. «Sei un chirurgo?» gli chiese papà. «Sì». «Bene, allora ricucila» disse, e uscì dalla stanza.
Quello non era esattamente un lavoro di semplice ricucitura. Il dottore sbiancò. Prima guardò i trentacinque centimetri di carne lacerata sul collo di una quattordicenne e poi guardò me. Pulì la ferita e la richiuse come un ventaglio (cioè non pari ma piegandola, così quando l’ha suturata c’è rimasto un salsicciotto). La chirurgia plastica gli era del tutto sconosciuta e di certo non sapeva come ricucire una parte molle e mobile del corpo. Così mi rimase una specie di corda sul collo, che a poco a poco da rossa divenne rosa e infine bianca. Si risolse così. La gente faceva i commenti più assurdi sulla mia cicatrice, e non erano mai carini o divertenti, anche se la maggior parte erano «per scherzare».
Negli anni successivi ho subìto numerosi interventi di chirurgia plastica al collo. Adesso è migliorato molto e non se ne accorge più quasi nessuno. Forse perché ormai non ci faccio più caso nemmeno io. Quando sopravvivi alle cose, col tempo… insomma, ora posso dire di essere orgogliosa delle mie cicatrici, anche di quelle che non si vedono.