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 2021  marzo 27 Sabato calendario

Intervista a Giampiero Della Zuanna


Quanti sono gli italiani? Tra le vittime della pandemia e culle ancora più vuote, i numeri certificano che siamo sempre di meno, e ineluttabilmente più vecchi.«Siamo scesi sotto la soglia dei sessanta milioni», dice Gianpiero Dalla Zuanna nel giorno in cui l’Istat fotografa la débâcle nazionale del 2020, con un indice di natalità che è il più basso dai tempi dell’Unità di Italia e il numero di morti più alto dal secondo dopoguerra. Dalla Zuanna è un nome autorevole della demografia, la disciplina più preveggente e meno ascoltata nel paese più anziano di Europa, il secondo nel mondo. È da decenni che i demografi insistono sulla senescenza degli italiani, ma la riforma della pensioni è arrivata tardi, e troppo bruscamente. Ora ci raccontano che anche i figli degli immigrati – quelli che ci ostiniamo a non riconoscere come italiani volgono lo sguardo verso nazioni più ricche. E che nel 2050 – ossia tra poco – si rinnoverà la “maledizione” dei baby boomers, una moltitudine di otto milioni di vegliardi più ricchi, più colti e più ingombranti degli attuali. La figura geometrica della demografia dalla piramide degli anni Ottanta è andata assumendo i contorni di un otre sempre più panciuto nella fascia centrale, condannando i nuovi nati a farsi largo in una folla di cinquantenni. Cinquantasette anni è l’età media dell’elettore tra vent’anni.Siamo sempre meno e sempre più vecchi, professor DallaZuanna?«Siamo scesi sotto la soglia dei sessanta milioni, anche considerando circa mezzo milione di stranieri irregolari. Ma l’aspetto inquietante è che questo calo probabilmente continuerà. Anche a causa delle vittime del Covid, nel 2020 i morti sono stati il doppio rispetto alle nascite, poco oltre le quattrocentomila. E a queste cifre s’aggiungono il calo degli immigrati e la crescita dell’emigrazione dei cosiddetti cervelli».La pandemia ha provocato un ulteriore svuotamento delle culle: 16 mila nati in meno rispetto al 2019, che aveva già battuto un record negativo.«Le nascite già tendevano a declinare non tanto per una minore propensione ad avere figli ma perché sono sempre meno le donne in età fertile. La pandemia ha rallentato la vita riproduttiva, in Italia come in tutti i paesi europei.Durante il lockdown anche chi voleva figli ha scelto di sospendere il proprio progetto».C’è sempre una relazione tra grandi traumi collettivi e culle vuote?«È accaduto in passato con le guerre mondiali e le epidemie. La novità è che, se un tempo finita la catastrofe gli italiani riprendevano immediatamente a fare figli, oggi non è più così: nei mesi estivi il virus sembrava debellato, ma non ci sono state più gravidanze».La pandemia ha colpito sul piano economico soprattutto le do nne e forse questa può essere una spiegazione.«Il virus ha penalizzato le donne perché lavoratrici precarie in misura maggiore dei maschi. Quel che i demografi rilevano è la connessione sempre più forte – non solo in Italia ma nel mondo – tra natalità e certezza del lavoro: quando le donne – e anche gli uomini – passano dal tempo determinato a quello indeterminato si affrettano subito a fare un figlio. È evidente che la precarizzazione del mondo giovanile ha pesato negativamente sulle nascite. Ma a questo s’aggiunge l’incertezza più complessiva nella quale siamo immersi: i luoghi di socializzazione sono sempre più legati al mercato e meno alla comunità. Perfino le parrocchie sono venute meno a questa funzione, anche perché non ci sono più i preti giovani che giocano con i bambini. Il risultato è che, da più di trent’anni, l’Italia è il campione mondiale della bassa fecondità».Colpisce che il calo delle nascite avvenga da noi, in Spagna e Grecia, paesi che hanno un forte radicamento famigliare.«Si fanno pochi figli per eccesso d’amore, non per egoismo, e quindi là dove c’è troppa famiglia. Se io genitore mi sento fortemente responsabile del benessere futuro dei miei figli, sceglierò di averne uno invece che due. Per questo bisogna attivare politiche di sostegno come una fiscalità agevolata per famiglie con prole numerosa, l’assegno unico e altre misure di conciliazione tra lavoro e cura famigliare: mi sembra che in Italia ci siano segnali in questo senso, confermati ieri dal premier Draghi. Negli ultimi tempi, però, stiamo assistendo a un fenomeno nuovo e sorprendente: se fosse confermato, dovremmo ricavarne che le misure di sostegno non sono risolutive».Qual è questo fenomeno?«Si fanno meno figli anche nel Nord Europa, nella felice Finlandia o in paesi come Francia e Belgio dove non mancano ottime politiche di sostegno. La diminuzione delle nascite è accompagnata dal calo dell’attività sessuale dentro la coppia, forse legato alla nuova epidemia dei social: è come se le persone stessero sostituendo la vita intima e il progetto riproduttivo con un altro genere di interessi.Crescono anche i childfree rispetto ai childless, ossia chi non ha figli per scelta rispetto a chi non li ha avuti per circostanze della vita. Sono fenomeni interessanti perché di solito da quei paesi si riverberano anche in Italia. In controtendenza è la Germania, dove la fecondità è ripresa fortemente grazie all’assegno unico per i figli e la quasi gratuità di asili e scuole materne».Secondo una sua recente ricerca sui millennials, i ragazzi italiani dicono di volere figli.«Vero, ma poi bisogna vedere che cosa succede dopo. Abbiamo intitolato quel nostro studio per il Mulino Piacere e fedeltà perché la sessualità libera è stata consegnata al passato. I ragazzi vivono l’intimità dentro la coppia e giudicano inammissibile il tradimento: questo però farà aumentare i divorzi».Al momento siamo un paese di vecchi.«E la situazione non migliorerà con le vagonate di baby boomers che invecchieranno nei prossimi anni. È stato calcolato che nel 2050 gli ultraottantenni saranno oltre otto milioni, il doppio degli attuali. Con caratteristiche profondamente diverse: più ricchi, più colti, più in coppia. E più richiedenti. Un passaggio epocale».Una specie di “maledizione”, per i nostri figli.«Non so se si possa dire così, ma certo siamo stati una generazione ingombrante. E continueremo a esserlo».Un paese di vecchi pensa da vecchio.«È una questione seria. Gli scienziati della politica hanno calcolato l’età mediana dell’elettore. Oggi è 51 anni, nel 2040 sarà 57. In questo senso il voto ai sedicenni potrebbe ringiovanire l’elettorato».Una risorsa preziosa potrebbero essere i figli degli immigrati che lei dieci anni fa, forse con un eccesso di ottimismo, definì in un libro del Mulino i “nuovi italiani”.«Nel 2009 vivevano in Italia 900 mila stranieri con meno di 18 anni, 600 mila in più rispetto al 2001. Ora sono circa un milione. Il nostro paese ha perso forza attrattiva e negli ultimi anni abbiamo assistito al trasferimento di famiglie di immigrati nei paesi che offrono maggiori possibilità. Da noi la scuola è rimasta come ai tempi di Don Milani: non mette fine alle diseguaglianze. E i figli degli stranieri – penso al Veneto – continuano a fare lavori meno qualificati di quelli svolti generalmente dai loro coetanei italiani. A essere più precisi, hanno le stesse mansioni dei figli degli operai».L’integrazione non è stata aiutata dal mancato riconoscimento della cittadinanza italiana prima dei diciotto anni.«Bisognerebbe accelerare i tempi che da noi restano lunghissimi. In attesa di diventare italiani, questi ragazzi non possono beneficiare di borse di studio internazionali, non possono fare concorsi pubblici, non possono accedere alle selezioni per entrare in polizia, non possono gareggiare nelle squadre nazionali pur bravissimi negli sport. Sono tutti impedimenti che hanno un forte valore simbolico, oltre il rapporto se non vessatorio certo molto noioso con il permesso di soggiorno».Riconoscerne i diritti risponde a un’urgenza civile oltre che a un interesse reale.«Le culle vuote non rappresentano un destino ineluttabile a cui il paese è condannato. Occorrono sviluppo e investimenti da una parte, dall’altra misure di sostegno alla famiglia. Dove hanno fatto politiche di conciliazione importanti – nelle province di Trento e Bolzano – il tasso di fecondità è in linea con quello tedesco. Il mix di ricchezza e cura ha funzionato. Gli italiani devono ripartire da questo modello».