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 2021  marzo 27 Sabato calendario

Intervista a Orhan Pamuk

 «Il governo turco tradisce le idee libertarie e vira nettamente sul conservatorismo. Il ritiro appena fatto dalla Convenzione di Istanbul sulla difesa delle donne dalla violenza è un voltafaccia imbarazzante, senza vergogna. Il mio nuovo romanzo sulla peste di inizio Novecento parla anche dell’autoritarismo. E l’isola dove immaginariamente si svolge la vicenda non è lontana dalla mia Istanbul».
La casa di Orhan Pamuk che si affaccia sul Bosforo guarda, in lontananza, Buyukada, l’Isola grande dove lo scrittore più famoso della Turchia passa le vacanze estive. Lì non ci sono auto, nelle strade che profumano di sale passano ancora le carrozze tirate dai cavalli, e i ristorantini piazzano i tavoli a un solo metro dal mare.
Dentro casa, nella sterminata sala divisa in due, ci sono scatole di cartone zeppe di volumi. L’editore Yapi Kredi ha stampato 300 mila copie del libro di Pamuk “Veba Geceleri” (Le notti della peste), un record assoluto per la Turchia, in attesa che il romanzo venga pubblicato il prossimo anno anche in Italia da Einaudi. Quattro di queste copie stanno ordinatamente impilate sul tavolo spoglio da dove il premio Nobel per la Letteratura parla a Repubblica.
Orhan Pamuk, perché la peste come soggetto?
«Perché è un tema che mi ossessiona, letteralmente, da anni. È uno di quegli argomenti che contiene tutti i temi a me cari: il confronto tra classi sociali, la modernità, l’islam politico, le identità nazionali. E poi i sentimenti: l’amore, la rabbia, la gelosia».
Esce adesso, in piena pandemia mondiale. Diranno che ci ha marciato.
«Ho avuto molta ansia per questo.
Ho cominciato a scrivere questo libro 5 anni fa. Ci sono anche dei video su YouTube che mostrano conferenze del 2018 in cui annunciavo il nuovo soggetto. No, la gente sa distinguere e sa che sono uno scrittore lento. Non ho certo bisogno di inseguire l’attualità. Però questa congiuntura mi ha fatto riflettere».
La storia a quando risale?
«Ai primi anni del Novecento, sotto l’Impero ottomano, in questa isola del Mediterraneo fra Creta, Cipro e Rodi. L’ho chiamata Minger, che è in parte Buyukada, con le sue strade, il porto, l’ufficio postale, le trattorie, l’edificio del comune».
Che cosa si era posto come obiettivo?
«Parlare dell’Impero ottomano, non per esaltarlo, ma per fare una descrizione quasi elegiaca della sua scomparsa. Con un po’ di malinconia».
Che è il sentimento che pervade tutta la sua opera. E poi?
«Mettere a frutto la mia immaginazione. E qui avevo bisogno di un’isola. Come hanno fatto in passato autori a cui mi sono ispirato, Tommaso Moro nell’Utopia, Jonathan Swift con I viaggi di Gulliver, Daniel Defoe con Robinson Crusoe, Albert Camus con La peste, e naturalmente Manzoni con i suoi capitoli sul morbo a Milano nei Promessi sposi. Quello che ho fatto è stato reinventare un’epidemia come quelle avvenute a Londra, a Marsiglia, o nel XVII secolo in Italia».
Nel suo romanzo il morbo si diffonde e il primo capitolo si intitola “Il governo nega la peste”.
«Sa che cosa ho capito facendo le mie ricerche? Che l’umanità compie gli stessi errori. Sempre. In questo caso negando la diffusione del disastro. Eppure ci sono differenze fondamentali fra il mio 1901 e questo 2020: a quel tempo la popolazione era ignorante, non capiva che cosa stesse succedendo. Oggi invece la gente legge, segue di notte la conferenza stampa in tv del ministro della Sanità americano, vede i notiziari online a tutte le ore. Insomma, adesso l’umanità è informata. E questo vuol dire molto sulla consapevolezza dell’opinione pubblica».
In Turchia ad esempio che cosa è avvenuto?
«Per i primi due mesi il governo ha agito bene. Poi, a maggio, con la perdita progressiva di introiti da turismo e affari, ha cominciato a ingannare la gente. E le persone hanno iniziato a perdere fiducia nelle autorità».
E il governo?
«Autoritario lo era già prima. Ha usato la peste per una stretta più forte. Come sappiamo, qui non c’è libertà di espressione, se non per pochi. I giornalisti sono messi in prigione facilmente, molti di loro sono miei amici».
E quindi si è arrivati alla recente decisione di ritiro dalla Convenzione di Istanbul. Come giudica questa scelta?
«Come un passo indietro molto grave, l’ultimo nei confronti delle donne, e del tutto repressivo per loro che si sentono più insicure nelle loro case, dove possono essere picchiate, insultate, terrorizzate dai loro mariti».
Eppure è una Convenzione che porta addirittura il nome della principale città turca. Non è una grande contraddizione?
«Il governo turco era stato addirittura il primo a firmarla! Nel 2011 la Turchia diceva: venite, difendiamo le donne. E lo faceva con orgoglio. Oggi però fa una giravolta imbarazzante, senza vergogna: non difendiamo le donne. E nega quanto ha siglato, tradendo le idee di libertà».