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 2021  marzo 27 Sabato calendario

Pechino se la prende con Nike e H&M

Lo scontro politico-diplomatico tra Occidente e Cina sulla repressione della minoranza uigura e gli abusi dei diritti umani nello Xinjiang si è esteso all’industria della moda. Il gruppo svedese H&M è sotto attacco a Pechino per un comunicato nel quale si era detto «profondamente preoccupato» dai rapporti secondo i quali nello Xinjiang viene impiegato il lavoro forzato per la produzione del cotone. La Cina fornisce il 22% del cotone mondiale e l’80% delle sue coltivazioni sono nello Xinjiang.
H&M è stata investita da una bomba a scoppio ritardato: il suo comunicato risale a un anno fa, scritto in inglese sul sito del gruppo dopo che erano stati diffusi rapporti sui campi di lavoro nello Xinjiang. L’azienda si impegnava a non utilizzare per i suoi capi di abbigliamento il cotone proveniente dalla regione nordoccidentale della Cina. La promessa era diretta al pubblico internazionale ed era passata inosservata.
Ma lunedì l’Unione Europea ha imposto sanzioni a quattro alti dirigenti comunisti. Pechino ha reagito mettendo al bando una dozzina di europarlamentari e studiosi di questioni sociali che avevano lavorato sul dossier diritti umani. E mercoledì la nota di H&M è stata «scoperta» e rilanciata da qualcuno su Weibo, il Twitter cinese. A quel punto è intervenuta la Lega della Gioventù comunista, invitando i suoi 90 milioni di iscritti a «reagire alla campagna di disinformazione e falsità sullo Xinjiang lanciata dall’Occidente». Subito si sono mobilitati decine di migliaia di troll nazionalisti che presidiano il web statale. E senza spiegazioni i capi del marchio svedese sono stati rimossi dalle piattaforme di e-commerce cinesi Tmall, JD.com, Pinduoduo. Poi la catena di 520 negozi fisici del brand nella Repubblica popolare è scomparsa da Baidu, che gestisce la app cinese equivalente di Googlemaps.
Il fuoco si è allargato a Nike, che sulla sua pagina web aveva una dichiarazione simile a quella di H&M. Il rancore alimentato dalla propaganda del Partito comunista è da caccia alle streghe e le intimidazioni sono state estese ad altre industrie straniere, come Uniqlo, Adidas e Burberry. Si sono schierati contro H&M, Nike e griffe collegate una trentina di testimonial pubblicitari cinesi, star del cinema e dello sport, che hanno ripudiato i loro contratti.
I troll nazionalisti
Decine di migliaia di troll nazionalisti si sono mobilitati contro «le falsità occidentali»
Il governo di Pechino nega di aver ordinato un boicottaggio commerciale, sostenendo che l’azione è partita spontaneamente dal popolo del web. Ma la signora Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, ha osservato: «I consumatori cinesi non permettono che alcuni stranieri facciano soldi sul nostro mercato mentre danneggiano e diffamano il Paese basandosi su voci e falsità». Hua ha aggiunto un dato: il 69% del cotone nello Xinjiang è raccolto dalle macchine: «È candido, puro, innocente».
Da anni però organizzazioni umanitarie internazionali e governi occidentali denunciano la situazione dello Xinjiang, dove il governo cinese ha deciso di «normalizzare» la minoranza uigura di religione musulmana «esposta alle infiltrazioni dell’estremismo».
Da Pechino è arrivato l’ordine di «rieducare» la popolazione. Almeno un milione di uiguri sono stati mandati in quelle che le autorità chiamano «scuole professionali» ma che testimonianze raccolte da organizzazioni umanitarie hanno descritto come «campi di detenzione dove si sfrutta su scala industriale il lavoro forzato, si fa indottrinamento politico, lavaggio del cervello e si compiono atti di tortura». La lezione che il Partito-Stato vuole dare al mondo è che per stare sul mercato cinese bisogna chiudere gli occhi sui diritti violati.