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 2021  marzo 26 Venerdì calendario

Stiamo per finire la sabbia

Avviso ai lettori. C’è un libro che potrebbe spingervi a sospettare di tutto ciò che è bianco attorno a voi: lo smalto delle mattonelle del bagno, il dentifricio, la pittura dei muri, una fetta di torta con la glassa. E potreste anche cominciare a guardare con occhi diversi il cemento sotto i vostri piedi e il vetro delle finestre. Il libro in questione è Sand Stories (Rhetority Media), l’autrice Kiran Pereira, ricercatrice e geografa indiana formatasi al King’s College di Londra e fondatrice di SandStories.org, organizzazione con l’obiettivo di collegare ricerca scientifica e soluzioni politiche per far fronte all’imminente crisi della sabbia.
Sand Stories, che ha ricevuto l’endorsement del Forum for the Future e dell’Osservatorio globale sulla sabbia dell’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), documenta in maniera esaustiva il rischio che corriamo nello sfruttare la sabbia (sì, è contenuta anche nei dentifrici e nelle decorazioni dei dolci) come fosse una risorsa inesauribile. Perché non lo è.
Il libro propone dati sorprendenti e consigli per evitare di erodere le spiagge, dove si trova la sabbia migliore per fare il cemento. Oggi il 54 per cento della popolazione mondiale è urbanizzata e si prevede che entro il 2050 si arriverà al 66 per cento: non sorprende perciò che si estraggano ogni anno circa 50 miliardi di tonnellate di sabbia e ghiaia, una media di 18 chili al giorno per abitante del Pianeta. Il Washington Post riporta che la Cina, maggiore consumatrice al mondo, ha usato più cemento in tre anni che gli Stati Uniti in tutto il XX secolo. Gli Emirati Arabi Uniti nel 2014 hanno importato l’equivalente di 456 milioni di dollari in sabbia, pietre e ghiaia per costruire grattacieli ma anche ippodromi di lusso. E poi pensate anche alle spiagge urbane di Parigi, Londra, Bruxelles, Toronto, Vienna, Berlino, Praga. O al vetro iper-resistente dei sei miliardi di telefonini in tutto il mondo. Alla fibra ottica, alla fibra di vetro. Ci vuole sabbia anche per le batterie al litio. Per i sistemi di missili teleguidati, i motori dei jet e i satelliti. E ne serve tanta anche per il fracking, la tecnologia con cui si spaccano le rocce per estrarre il gas, molto criticata per i rischi ambientali che comporta.
La sabbia è «l’eroe nascosto del nostro mondo» sostiene il geologo britannico Michael Welland, autore di Sand, the Never-Ending Story. Per questo tre quarti delle nostre spiagge stanno già scomparendo, dice Pereira. E non c’è modo di rimpiazzarle in fretta, perché per creare un granello ci vogliono 25 mila anni, come spiega nell’introduzione di Sand Stories Denis Delestrac, regista del premiatissimo eco-documentario Sand Wars (2013). La sabbia si forma infatti a partire dalla roccia che si sgretola per l’erosione dovuta alle intemperie, nei millenni o milioni di anni. Questo sgretolamento avviene spesso lontano dagli oceani, ma poi i frammenti rotolano verso il mare nei fiumi e torrenti, continuando a frantumarsi. Quando arriva finalmente alla spiaggia, la sabbia continua a essere erosa dall’azione costante di onde e maree. E i suoi diversi colori dipendono dal tipo di roccia predominante.
Oggi siamo dipendenti dalla sabbia più che da ogni altra risorsa naturale, a parte l’acqua. E quando le risorse scarseggiano, fa capolino la criminalità organizzata: c’è una “mafia della sabbia” che agisce, per esempio, in India (ma non solo). «La sabbia è una risorsa data per scontata. Ma se finisse, finirebbero il cemento, il vetro, e addio attuali standard di vita» spiega Kiran Pereira. «Non c’è più tempo. Poiché il tasso di raccolta supera di moltissimo il tasso di produzione naturale, oggi la comunità scientifica è consapevole della necessità di fare attenzione a come la usiamo. Più estraiamo, più impoverito sarà il mondo».
I segnali di questa emergenza ci sono da tempo, eppure sembra che non contino.
«Sì, basta osservare quello che sta già accadendo in alcune comunità del Midwest degli Stati Uniti con l’aumento di casi di asma e silicosi causati dall’estrazione di sabbia per il fracking, che le autorità locali non erano preparate a gestire. Dove c’è estrazione indiscriminata ci sarà sempre un impatto a lungo termine. Eppure non si legifera, per via dei forti interessi del settore dell’edilizia e dell’energia. Dove invece le leggi ci sono, come in India, vengono comunque aggirate con la corruzione».
Uno studio del British Geological Survey del 2018 dice che gli umani sono la più significativa forza di cambiamento geomorfologica del XXI secolo. Abbiamo sorpassato la natura nel dare una forma al mondo...
«Il fatto è che abbiamo acquisito un livello tecnologico che ci consente di giocare a essere Dio. Possiamo creare città enormi non in millenni ma in pochi mesi. In Cina hanno costruito dal nulla un’area grande come Londra e Monaco sommate. In un’altra provincia, in cinque anni hanno creato uno spazio urbano per 800 mila abitanti. Si estrae  sabbia  anche dal suolo oceanico, ma così si distruggono molte forme di vita. Bisognerebbe studiare cosa accade davvero in un luogo di estrazione. L’industria li chiama ’pozzi di prestito’, un prestito che in verità non sarà mai restituito, e che distrugge l’ecosistema e la pesca. E non solo: se estrai sabbia vicino a un’isola rischi che le spiagge smottino per riempire il vuoto creato. L’Indonesia in questo modo ha perso 25 isole. Annegate nell’oceano».
Dietro queste estrazioni selvagge c’è spesso la criminalità.
«Agisce come ogni mafia, esercitando il controllo indirettamente, infiltrando i sistemi di potere tramite la corruzione. Per continuare a estrarre indisturbata ovunque. Se ti metti di traverso alla mafia della sabbia, in India ti arrivano uno o due avvertimenti. Se insisti, non hanno alcun problema a ucciderti, perché la sabbia è l’elemento fondamentale della nuova urbanizzazione».
Come si può intervenire?
«Per prima cosa bisogna capire che l’edilizia non è costretta a usare soltanto il cemento. Esistono molti palazzi solidi ed efficienti che ne usano poca o niente. C’è il legno ignifugo, per esempio, e anche la paglia. Ma soprattutto bisogna dare priorità al cemento riciclato. Nel XXI secolo l’estrazione di materie prime per la costruzione è aumentata di 23 volte: non è sostenibile. Ma qualcuno per fortuna l’ha già capito: Amsterdam, per esempio, ha deciso di diventare al cento per cento "circolare" entro il 2050: tutti i materiali da utilizzare nei nuovi cantieri saranno riciclati dalle vecchie costruzioni. A Zurigo già adesso costruiscono palazzi con cemento riciclato al 90 per cento».
Lei lancia l’allarme anche sul biossido di titanio, una polvere bianca di origine minerale fatta anche di sabbia. Pare sia ovunque. Nella ceramica, nelle strisce pedonali, nella pittura, nella vernice delle auto, nel dentifricio, nelle creme solari, nei cosmetici. E perfino come additivo negli alimenti (sotto la sigla E171). Ma qual è il problema?
«C’è troppa domanda. E la sabbia per produrre il biossido di titanio arriva da Paesi che non regolano l’estrazione in maniera severa, come il Madagascar. Ma poi, soprattutto, può costituire un rischio per la salute. Si presenta anche sotto forma di particelle nanometriche che generano aerosol, quindi possono essere nocive se inalate ma anche se ingerite. Si trovano nei chewing gum, nelle caramelle, nelle decorazioni per le torte: potrebbero penetrare le pareti dello stomaco e dell’intestino delle persone vulnerabili. Per questo in Francia ne proibiscono l’uso. Cosa che ovviamente disturba le aziende produttrici».
Considerato il potere delle lobby, cosa pensa si possa fare?
«Mi auguro ci siano nuovi studi per stabilire il vero impatto di questa sostanza, anche se al momento è molto difficile trovare i finanziamenti per le ricerche. Invece, per quanto riguarda la sabbia in generale, il Pianeta intero è quasi a un punto di non ritorno: solo se metteremo subito la salute e l’ambiente prima dei profitti, forse arriveremo a una soluzione».