il venerdì, 26 marzo 2021
Le paure di Niccolò Ammaniti. Intervista
Quando sei anni fa uscì Anna, il romanzo, a Michele Serra che lo recensì su Repubblica venne in mente che questa storia di un mondo post apocalittico popolato di soli bambini potesse diventare «un fantasy sontuoso». Anna era la tredicenne che trovava dentro di sé il coraggio per prendersi cura del fratellino dopo la morte della mamma, una degli adulti uccisi, inevitabilmente tutti, da un misterioso virus che prende i polmoni dopo essersi annunciato con delle macchie sulla pelle. Ora che arriva dal libro una serie tv (i sei episodi sono disponibili dal 23 aprile su Sky Atlantic e in streaming su Now), Niccolò Ammaniti dice che «proprio un fantasy non sembra più». Nel romanzo (edito da Einaudi) aveva immaginato il contagio della Rossa, e ora si ritrova dinanzi alle immagini di un film nel quale «le premesse» dice «assomigliano a quello che stiamo vivendo».
A tre anni di distanza da Il Miracolo ha accettato di dirigere la serie, di una bellezza e una potenza visiva così forti da fare di lui un regista autentico, non più uno scrittore prestato al cinema. Nessuno poteva immaginare l’accavallarsi di due piani. La parte iniziale del primo episodio è quasi un riflesso, un rimbalzo di ciò che viviamo, prima che la storia prenda la sua via indipendente e visionaria, verso quello che Ammaniti chiama «un mondo impossibile, un esperimento antropologico figlio di un’immaginazione e di una domanda: se una parte dell’umanità formata da bambini viene lasciata a sé stessa, che cosa succede?».
Anna non è un film che ha scelto di stare in sella alla realtà. È successo. Un cartello avverte lo spettatore che la storia è tratta da un romanzo del 2015 e che le riprese sono iniziate prima che il virus si manifestasse. «Ed è una cosa che mi inquieta. Mentre stavamo girando, ero preoccupato da certi echi che arrivavano, ma non ho cavalcato il virus. È solo una premessa della mia storia, necessaria a raccontare un mondo senza adulti. So che questa adesione alla realtà adesso è strana, non so come il pubblico la vivrà, ma le due cose non hanno nulla a che fare».
Lei crede nelle premonizioni. Il virus è arrivato in Italia mentre eravate sul set da pochi mesi. Che cosa ha pensato?
«Mi era successo in maniera meno drammatica con Il Miracolo. Quando lo avevo scritto, parlavo dell’ipotesi di uscire dall’Europa e a un certo punto c’è stato qualcuno che veramente l’ha valutata. Mi era bastato per restarne colpito. Io credo che alla fine i sogni e le preoccupazioni tornino in quello che si scrive. Ti domandi: com’è possibile che ho raccontato una cosa che poi si è avverata? Perché nelle storie metti le tue paure, il virus lo era da quando sono stato a Hong Kong e c’era la Sars. È stato strano. Eravamo sul set, c’erano personaggi che fingevano di essere malati e questo virus vero che dalla Cina era arrivato a Bergamo. All’inizio l’ho sottovalutato, poi ci ha impedito di proseguire le riprese».
Si è sentito condizionato in qualcosa dall’attualità che le rubava il film?
«Il virus era l’unico espediente narrativo che mi consentiva di avere un mondo in mano ai bambini. Una bomba o un terremoto avrebbero fatto dei morti senza età. Ho eliminato alcune scene, altre le ho allentate al montaggio perché non fossero poco piacevoli. Sono passato da otto a sei puntate, alla fine è stato un bene».
Sulla copertina del suo romanzo, il nero e il bianco sembrano in lotta per un’egemonia. La luce e l’ombra. Lei come spiega che proprio adesso, con l’arrivo dei vaccini, la cupezza sia al culmine?
«Perché all’inizio ci siamo preoccupati e sorpresi dinanzi a un cambiamento significativo. La nostra generazione non aveva esperienze forti condivise. A Roma ricordo al massimo l’austerity anni 70, quando non si poteva girare in macchina e vedevi la gente che si spostava a piedi. Oppure la neve. Piccole cose. Questa è la prima volta di una condizione collettiva e inaudita. Abbiamo accettato anche con piacere di stare chiusi in casa e riscoprire alcuni aspetti dimenticati. Il primo lockdown per me è stato un periodo nel quale ripensare il film come succede con i libri: avere più di una stesura. Adesso la gente non ne può più. È diventato difficile vedersi. Ti chiama un amico per incontrarti e devi cercare una scusa, inizi ad avere timore anche di persone a cui vuoi bene. È una condizione terribile. Bisogna uscirne perché siamo stanchi, e sono convinto che ne usciremo. Il libro può sembrare cupo, ma sia il romanzo sia la serie in realtà parlano di speranza. La voglia di liberarsi da un incubo spinge questa bambina ad affrontare pericoli superiori alle sue possibilità, a combattere per arrivare a qualcosa che è solo immaginabile. È il messaggio più positivo tra tutte le cose che ho scritto e che ho fatto».
Come le pare la sofferenza dei minori? Com’è la loro sopravvivenza?
«Si soffre di più agli estremi, nelle fasce d’età che dipendono dagli altri. Se togli un anno a un anziano è come togliere 10 minuti a una farfalla. Non glielo restituirà nessuno. Ed è un tempo vivo, perché un uomo e una donna di 70 anni oggi sono persone attive. La pandemia le sta rinchiudendo e invecchiando. I bambini più piccoli ne risentono meno. Si costruiscono mondi alternativi anche dentro una scatola. Il gioco e la fantasia aiutano a superare le condizioni di cattività. È un aspetto su cui ho sempre lavorato. In Io non ho paura (2001) un bambino rapito era chiuso in un buco e continuava a immaginarsi un mondo che giustificasse la situazione. In Io e te (2010) ce n’è un altro che decide di chiudersi in una cantina fingendo di essere in settimana bianca. Non ho mai pensato che la socializzazione fosse così necessaria per loro. Penso che invece dai 12-13 anni la sofferenza aumenti. Nella fascia in cui già si interagisce attraverso le chat. Il virus non aiuta. Cosa si temeva delle piattaforme sociali? Che cancellassero l’avventura, l’esperienza di camminare nel buio, la scoperta che da una strada se ne apre un’altra, che sia una mappa a mostrarti dove si trova Casalotti. Ecco perché questo virus mi pare l’evoluzione di un sistema operativo del computer, fatto per legarti ancora di più a esso. È come se fosse l’ultimo dei social. Devi usare Facebook o altro per parlare, il che è mostruoso».
È come se in Anna lei si domandasse che mondo lasciamo ai più piccoli e che cosa ne faranno loro. Un mondo senza adulti significa che si è vivi finché si è piccoli?
«Significa che si è vivi finché si ha nostalgia. Cresciamo, progrediamo, e a meno di non essere accecati dai propri obiettivi, arriva una fase nella quale si comincia a ricordare quello che si è fatto anziché proiettarsi in avanti. Quando subentra un momento nel quale il passato non ha più senso, quando anche le nostalgie vengono meno, lì siamo un po’ morti. In Anna pochissimi adulti sono in grado di dire ai figli cosa devono fare. L’unica a modo suo è la mamma di Anna, che le lascia un libro di cose da capire e trasformare in memoria, e dalla memoria in azioni. Le testimonianze di chi è vissuto prima di noi sono fondamentali per farsi un’idea del futuro. Ho letto che durante l’Impero Romano ci fu una malattia che durò trent’anni. Se non è trasmesso, il passato si dimentica. Se non sai che cosa è stato fatto prima di te, diventa difficile sviluppare un’etica. Esiste questa narrazione secondo cui i bambini sono buoni e diventano cattivi da adulti, ma un mondo di bambini nel quale nulla gli viene insegnato è feroce. È un mondo di regole primarie. La scommessa era vedere se quel mondo che mi ero immaginato, poteva incarnarsi nei piccoli attori che abbiamo scelto».
Com’è stata la loro gestione sul set?
«Sono stato molto aiutato da Lorenza, la mia compagna (Lorenza Indovina, ndr), che da attrice conosce meglio di me certi meccanismi. I bambini hanno lavorato con sicurezza, quasi che quel mondo immaginario non gli fosse estraneo. Un passo ed erano dentro, senza chiedere perché. Era un gioco, un mondo ipotetico, poteva esistere. Io non ho figli e mi sono trovato immerso in una quantità di ragazzini mostruosa, ognuno con le sue esigenze, la sua età. Ne ero terrorizzato. Li trattavo come adulti e loro erano più contenti. So di registi impazziti per ogni scena da girare, so di trattative per cui se fai questo ti compro il gelato, se dici questo ti faccio il regalo. I bambini ci mettono un attimo a trasformarsi in tiranni, a passare da ultimi a primi. Gli pare normale essere accompagnati da 15 persone che li coccolano e gli puliscono le maniche. Se gli parli da adulto, si adeguano subito. I più piccoli non avevano la sensazione della macchina né di essere osservati. Tu gli chiedi: corri, fai finta che quel barattolo è un astronave, e la cosa succede. Dopo la pubertà la macchina da presa cambia ruolo. Diventa uno specchio. Smettono di essere naturali. Vogliono sapere se sono belli, brutti, giusti. È per questo che lavorare con gli adolescenti può essere più complicato. Con Giulia Dragotto che fa Anna, invece, è stato semplice perché è un’attrice vera».
Ci sono scene di massa spettacolari, c’è un bimbo formidabile che avrà tre anni. Come avete fatto?
«Le scene di massa le abbiamo girate prima del Covid. Siamo stati fortunati. Nicolino è il figlio di uno dei nostri addetti al casting. C’è un piano sequenza lungo sette minuti, lui è chiuso in un’auto e dentro si nascondeva Lorenza che lo teneva buono. Quando la macchina da presa si avvicinava, lei si sdraiava a terra. A Nicolino avevamo detto che l’attrice che interpreta Anna da piccola si chiamava veramente Anna, oppure che Elena Lietti di nome faceva Mamma, e allora ogni tanto lui diceva: io voglio la mamma vera, non Mamma quella. In una scena ha un chewing gum, lo toglie dalla bocca, scende da una poltrona e lo attacca lì sotto. È stata una sua idea e l’abbiamo tenuta così».
Ha ancora voglia di raccontare l’infanzia e l’adolescenza?
«Ogni volta mi dico basta. Poi non so perché, le storie che penso hanno sempre per protagonisti dei bambini. Mi stupiscono. L’energia dei bambini è miracolosa. Il mondo di Anna mi dava la possibilità di recuperare personaggi che nel libro avevo sacrificato per brevità, per evitare il romanzo corale. La serie è stata un’occasione quasi per riscrivere il libro, come a un certo punto avevo immaginato, chiamandolo magari - che ne so - Anna integrale. Però non si fa. Ci sono scrittori che hanno vissuto per sempre all’interno di mondi costruiti, penso a Dune, a Conan, a quelle saghe in cui esistono regole che possono essere gabbie creative ma molto interessanti e piacevoli».
Lei si fiderebbe di un mondo salvato dai bambini?
«Macché. Come non mi fido dell’idea che i bambini capiscano più di noi. Sono solo delle versioni più piccole di quel che siamo. Capiranno quello che dovranno capire diventando adulti».