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 2021  marzo 26 Venerdì calendario

Come nacque la Repubblica

«Repubblica ha avuto una gestazione complessa che richiese al suo tempo soluzioni economiche, culturali e politiche». Qualche giorno fa stavo rileggendo questo passo tratto da Grand Hotel Scalfari, il libro- intervista che Antonio Gnoli e Francesco Merlo hanno scritto due anni fa. Andando avanti nella lettura mi è venuto il desiderio di condividerne il seguito con i lettori di questo giornale perché penso che possa interessare loro conoscerne le origini, gli ostacoli e la speranza che mi accompagnarono in quel periodo della mia vita.«Fin dall’inizio di quell’avventura – prosegue il capitolo – cercai di capire in che misura un paese come il nostro in cui la stampa si era modificata pochissimo nel corso del Novecento e con un numero di lettori tra i più bassi d’Europa potesse accogliere il progetto di un nuovo quotidiano le cui caratteristiche si sarebbero subito rivelate sensibilmente diverse dagli altri concorrenti. Insieme a Carlo Caracciolo cercai dunque di realizzare un giornale che interpretasse le nuove esigenze della società civile. Non una casa di sinistra come si è detto spesso, ma un luogo abitato da persone di sinistra capaci di raccontare con un linguaggio nuovo le diseguaglianze e le ingiustizie che affliggevano l’Italia.Il nostro piano industriale prevedeva un investimento di 5 miliardi di lire, appena sufficiente per avviare il giornale. Avevamo calcolato il punto di pareggio – il break even – come si dice oggi, si attestava intorno alle 130mila copie vendute. Per quanti sforzi facessimo, i nostri capitali erano insufficienti e perciò ci rivolgemmo alla cosiddetta “borghesia illuminata” facendo il classico giro delle sette chiese tra coloro che avevano un cospicuo reddito. Pochissimi si mostrarono interessati e alla fine raccogliemmo meno di quattrocento milioni. Gli utili accantonati nell’ Espresso ammontavano a circa un miliardo e con le fideiussioni che alcune banche ci accordarono arrivammo allacifra di due miliardi e mezzo. Dovevamo trovare il resto sul mercato. Solo due editori erano in grado di affrontare quell’investimento, Rizzoli e Mondadori. Mi rivolsi al primo.Avevo conosciuto superficialmente Angelo Rizzoli, un imprenditore che si rivelò abilissimo nel suo campo. Non posso dire lo stesso del figlio Andrea e del nipote Angelo. “Angelone” come era stato soprannominato per via del suo corpo massiccio. Andrea si dimostrò ambizioso ma debole. Aveva sposato Ljuba Rosa, una ragazza molto avvenente con cui Caracciolo aveva avuto un flirt. Nel 1970 alla morte del padre Andrea ereditò una parte dell’impero e con i capitali a disposizione tentò la scalata al Corriere della sera allora nelle mani di Giulia Maria Crespi, Gianni Agnelli e Angelo Moratti. Nel 1974 i Rizzoli riuscirono a conquistare il quotidiano di via Solferino. Alla luce delle cose che sarebbero accadute in seguito non fu un grande affare.L’anno successivo cominciò a girare la voce che ad Angelone, forse per affrancarsi dall’ingombrante figura del padre, non dispiaceva l’idea di creare un nuovo quotidiano. Andai a trovarlo una prima volta a Roma. Abitava a Porta San Pancrazio dove più di un secolo prima c’era stata la battaglia di Garibaldi contro i francesi. L’impatto visivo della casa dall’esterno era notevole: da una finestra si scorgeva sullo sfondo la statua di Anita Garibaldi, un’eroina a cavallo con la mano nell’arma mentre si fa largo tra le schiere dei nemici che la circondano. Nell’agiografia risorgimentale Anita era sempre stata vista come il riflesso delle imprese dell’eroe dei due mondi ma in quella composizione scultorea acquisiva forse per la prima volta uno spessore e un’autonomia che la storia le aveva negato. Chissà se anche Angelone avrebbe avuto il suo momento di gloria.Quel primo incontro in realtà servì solo a capire quanto fossero fondate le voci circa il progetto di un nuovo giornale. Ci riservammo un secondo round, questa volta nella sua abitazione milanese dove arrivai con leggero anticipo. Aprì un cameriere che mi fece accomodare nello studio. Improvvisamente sentii una voce stridula e sgraziata che pareva dire “buongiorno”. Era il verso di un pappagallo chiuso in una piccola voliera. Pochi minuti dopo Angelo entrò nella stanza e per prima cosa si diresse verso la gabbia, l’aprì e, facendoneuscire il pappagallo, cominciò a parlargli. La scena era a dir poco surreale. Gli aveva insegnato a ripetere “Angelo, sei uno stronzo”. Ma come è possibile che qualcuno abbia addestrato un uccello per farsi insultare? Rivolsi la domanda a Rizzoli il quale lo spiegò.“Ogni qualvolta prendo unadecisione voglio che il pappagallo mi dica se ho fatto bene o no. Se mi insulta e se mi dà dello stronzo allora ci penso due volte prima di concludere l’affare”. Pensai che forse sarebbe stato più pratico se si fosse affidato ai dadi o all’oroscopo. Finalmente parlammo del progetto che mi stava a cuore. Gli dissi che in quella fase esplorativa avevamo pensato alla Rizzoli come alla grande famiglia editoriale in grado di sostenere la metà di un investimento che avevamo calcolato intorno ai 5 miliardi.Angelone prese tempo. Guardai il pappagallo, che si era appollaiato sul davanzale della finestra. Mi pare appartenesse alla specie dei Cenerini. Angelone si alzò un po’ a fatica dalla poltrona e claudicante si diresse verso il pennuto. Sibilò nell’aria uno “stronzone” che mise fine a una storia che non era neppure cominciata.Nel 1978 Andrea Rizzoli lasciò l’impresa editoriale nelle mani del figlio e si ritirò nel Sud della Francia incalzato da una malinconia e da un’inerzia che i soldi non potevano curare. In poco tempo Angelo si lasciò invischiare a pericolose trame finanziarie e nell’affaire P2. Fu travolto dai debiti e dall’opinione pubblica che gli voltò le spalle. Ho provato una certa pena per quest’uomo introverso e mal consigliato, che non seppe amministrare con oculatezza i propri beni cospicui. L’arresto per la bancarotta, il sequestro delle proprietà, la morte per infarto del padre, il suicidio della sorella, rivelarono i tratti di una tragedia che nessuno avrebbe potuto immaginare per quello che era stato il padrone del primo gruppo editoriale del paese. Alla fine degli anni Settanta sul disastro del Corriere Repubblica avrebbe guadagnato centomila copie. Ma nel 1975, sfumato l’accordo con Rizzoli, non ci restava che rivolgerci a Mondadori. Quando conobbi Arnoldo era già un vecchio padre nobile. Trovai singolare che non leggesse, che non distinguesse tra Tolstoj e Dostoevskij. Non provava imbarazzo né faceva finta di essere colto. Scoprii che tuttavia in fatto dieditoriaaveva una grande competenza. Gli bastava annusare i libri per capire se potevano essere di gradimento alla platea tutt’altro che vasta dei lettori italiani.Ritengo che Mario Formenton, il quale aveva sposato Cristina Mondadori, sia stato la migliore scelta alla successione che Arnoldo potesse augurarsi. Incontrai Mario a una cena in casa di Rosellina Archinto, una signora della Milano bene a lungo compagna di Leopoldo Pirelli. Mi rivolsi a Mario accennandogli alprogettoe simostrò fermamente interessato. Nelle settimane successiveseguirono degli incontri durante i quali valutammo i rischi e il potenziale dell’impresa. La riunione decisiva si svolse nel tardo inverno 1975 nella villadi Giorgio Mondadori aSommacampagna pocodistante daVerona dove mi recai con Carlo Caracciolo: intuivamo che la partita in un modo o nell’altro si sarebbe conclusa la sera stessa. Al tavolo si aggiunse Sergio Polillo, uno dei dirigenti della casa editrice. Il quale si limitò a dire: “Si può fare”. Carlo mi mollò un calcio sotto il tavolo. La tensione che ci aveva accompagnato nel corso di quei due mesi si sciolse di colpo. Stilammo un patto e per festeggiarlo il giornodopoandammotutti all’Arena di Verona, in cartellone c’era l’Aida.Quelli trascorsi con Mario Formenton furono anni bellissimi, scanditi da una collaborazione preziosa e da un’amicizia che vi si sovrapponevafino a diventare dominante. In nessuna occasione egli fece valere il peso della Mondadori. Le telefonate, le riunioni, gli incontri anche quelli più casuali, magari in casa di amici comuni, avvenivano sotto il segno di un’intesa naturale. Mario considerò sempre l’indipendenza una prerogativa imprescindibile per il nostro lavoro giornalistico; furono l’allegria e l’intelligenza a dare pienezza alle nostre vite. Quando morì nel 1987 Repubblica aveva raggiunto traguardi importanti a cui tutti avevamo contribuito. Ma so bene che senza il suo lavoro, la sua fiducia nell’avventura editoriale, il giornale non sarebbe nato. Altrettanto fondamentali furono la presenza e il ruolo di Carlo Caracciolo. Quando ripenso alui faccio fatica ad associare alcuni suoi tratti a quelli dell’avvocato Agnelli, sul quale non scrissi una biografia ma un romanzo – La ruga sulla fronte – che aveva al centro la noia, un sentimento che in lui fu immenso e profondo. Per sfuggire all’horror vacui della noia Agnelli riempiva la vita di incontri continui e diversi. Era senza regole emotive attratto dai giornali, dal calcio e dalle donne. Diceva di non essere mai innamorato, considerando quel sentimento una manifestazione poco meno che ridicola. Era il più grande industriale italiano e aveva un forte potere politico, ma temeva che il mondo fosse vuoto. Combatteva questa specie di abisso riuscendo a credere che la sua vita non fosse qualcosa di molto diverso da ciò che percepiva. In tutta la sua storia sospetto non sia stato né figlio, né marito, népadre enemmeno datore dilavoro. Era un monarca seduto sul trono.Agnelli fu il fondale antropologico su cui stagliò la vita di Caracciolo. Voglio dire che l’Avvocato fornì forse involontariamente un modello di comportamento che Carlo impreziosì con il suo tratto aristocratico. Entrambi sufficientemente cinici, disincantati e ironici, seppero trasformare gli eventi mondani in altrettante occasioni di successo. Ovviamente le proporzioni di quel successo erano molto diverse, eppure tentare di accostarle come sto facendo rivela la loro natura a un tempo volatile e determinata, a tratti indifferente e tuttavia attenta al fluire delle cose. Come sanno essere degli abili e dissipati aristocratici. Uno era principe, discendendo dalla casata dei Caracciolo di Castagneto e dai conti di Mileto, l’altro era vissuto e viveva come un re».Cercai di realizzare un quotidiano che interpretasse la società civile per dare conto di diseguaglianze e ingiustizie La riunione decisiva fu nel tardo inverno 1975 nella villa di Giorgio Mondadori vicino Verona dove mi recai con Carlo Caracciolo