La Stampa, 26 marzo 2021
Intervista a Gessica Notaro (parla del suo viso)
Uscita dall’ospedale dopo l’aggressione con l’acido da parte di Eddy Tavares, l’ex fidanzato che l’aveva sfigurata per vendicare l’"abbandono” subito, Gessica Notaro toccò il fondo della disperazione quando si rese conto che non poteva neanche urlare il proprio dolore e la propria rabbia per la violenza inaudita di cui era stata vittima l’11 gennaio 2017: la bocca era ancora legata dalle cicatrici, impossibile anche solo dare voce a quel che provava. Oggi Gessica può guardarsi allo specchio e commuoversi per la propria bellezza ritrovata: «Vedo il mio viso e piango di gioia».
Su Instagram, l’ex Miss Romagna, addestratrice di delfini e attuale cantante, 31 anni, ha raccontato l’emozione di riscoprirsi sempre più vicina alla splendida ragazza che era: «Questo è un momento di svolta nella mia vita, perché si inizia a lavorare non solo più sulla funzionalità ma anche sull’estetica: quest’intervento mi consente di tornare finalmente a vedermi con i lineamenti di prima». Sta rinascendo, ma ricorda benissimo il periodo più brutto della sua vita, dopo il ritorno a casa dall’ospedale, quando però un riflesso vitale le salvò l’esistenza: «Ho pensato: “io a quello (Tavares, condannato a 15 anni, ndr) non gliela do vinta, vediamo chi di noi due sarà più forte alla fine”. Mi dicevano “devi guarire per te stessa”, invece a volte serve la cattiveria per uscire da una situazione così. Mi sono detta “ho più pazienza di lui, sono più forte di lui, dopo riderò io”, e così è stato. È una persona debole, del resto è uno che ha tirato dell’acido in faccia a una ragazza».
Che cosa le ha fatto superare lo choc e la sofferenza del l’aggressione?
«Il giorno che all’ospedale, a una settimana dall’assalto, mi sono decisa a guardarmi allo specchio, avevo fatto una specie di voto: mi sono inginocchiata e ho chiesto al Cielo di lasciarmi la vista. Che si prendesse pure la bellezza, ma che potessi ancora vedere. A quel punto ero pronta ad affrontare anche una situazione tremenda come quella».
Riesce a descrivere come si sentiva?
«Non sentivo nulla per gli anestetici che avevo addosso, chiedevo a mia madre, che ha sofferto molto per quel che è successo, “ma ho ancora naso e bocca?”. Ero come insensibile, ma la faccia c’era ancora... Ho visto l’occhio, mi sono sforzata di sorridere per indurre una sorta di ipnosi positiva, che mi facesse andare avanti. È stat dura, ma mi sono rialzata».
C’è stato un momento più difficile di tutti gli altri?
«È stato molto traumatizzante quando sono uscita dall’ospedale, tutta gonfia perché si stavano formando le cicatrici, ma fin dal primo momento ho cercato di visualizzare il mio volto guarito, e questo mi ha molto aiutato».
Il dolore deve aver raggiunto i limiti del tollerabile.
«L’ho sentito forte per un anno, impossibilitata a urlare perché legata dalle mie stesse cicatrici, poi dopo un anno la svolta, quando ho partecipato a “Ballando sotto le stelle”. Quello è stato l mio toccasana, è lì che ho cominciato a guarire: sono dimagrita, mi sono risentita femmina, potevo essere truccata».
Ha incontrato qualcuno di speciale in questi anni?
«Ho un compagno che ho conosciuto l’anno scorso a una fiera di cavalli, una passione comune a entrambi, e con cui sto insieme da sei mesi».
Lei si serve spesso dei social, lo fa anche a scopo educativo?
«A questo scopo vado nelle scuole e partecipo a convegni, oltre a lavorare al servizio di donne vittime di violenza. Seguo personalmente tantissimi casi in collaborazione con le forze dell’ordine. Ho anche dovuto formare dei collaboratori, perché il numero di vittime che si rivolgevano a me era tanto alto che non riuscivo ad occuparmi di tutte quante, un centinaio ogni mese. Non avevo idea che il problema avesse queste proporzioni. Uomini e donne ne sono afflitti entrambi, sia pure in modo diverso».
Che cosa intende?
«Che se ci sono sette uomini su dieci affetti da disturbo narcisistico della personalità, molte donne soffrono di dipendenza affettiva per cui non riescono ad allontanarsi dal compagno che fa loro del male. È come la droga, e infatti è assimilata alla dipendenza da sostanze stupefacenti».
Cosa la spinge ad impegnarsi in questo modo?
«Dà un senso a quello che mi è successo, oltre a essere un contributo alla crescita di una cultura diversa, a partire dai ragazzi delle scuole». —