Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2021
«Obbedienza», la parola impronunciabile
L’Italia offre in questi mesi, così trepidi e ansiosi, un singolare esempio di pudore linguistico. Mentre scorre il denso fiume di leggi, decreti, prescrizioni, entro cui il cittadino quasi si perde e smarrisce, c’è una parola impronunciabile.
Si levano, da pubbliche autorità e virologi dell’ora, moniti gravi o messaggi di speranza, inviti all’unione solidale e allo sforzo comune; ma la terribile parola mai è pronunciata.
Eppure basterebbe una riflessione, non ignota agli studiosi di sociologia del diritto e di scienza politica. Dire norma di legge (o la più lieve “regola”) è dire sanzione per il caso di inosservanza. Un diritto sprovvisto di sanzioni è un diritto disarmato, voce impotente e inutile. Da questo semplice argomentare affiora l’impronunciabile “obbedienza”.
Perché mai detta, mai scandita come un grido di disciplinata collettiva, un appello alle volontà individuali raccolte intorno a uno scopo comune? Vibrano nel rifiuto della parola un sospetto e uno stato d’animo: il sospetto dell’autoritarismo e il fastidio che la volontà propria dipenda da altri. E sarebbe agevole replicare che i comandi provengono da poteri designati, direttamente o indirettamente, dal voto popolare; e che il sentimento della “dipendenza” è proprio di ogni umana comunità, dove s’intrecciano rapporti reciproci, e l’uno all’altro è necessario.
Il silenzio sull’obbedienza, il ritegno nel suscitare la disciplina collettiva, indeboliscono il vincolo delle prescrizioni, che sembrano come consegnate all’arbitrio e al mutevole gusto dei destinatarî. Si profila così una situazione, che tiene del paradossale: da un lato, l’occasionalismo produttivo di norme innumerevoli (europee, nazionali, regionali, comunali ecc.), che si addensano e incombono; dall’altro, nessun severo e duro richiamo all’obbedienza.
Narra il grande Tucidide, nella sua scabra prosa, che Atene, colpita e devastata dalla peste nell’anno 430 a. C., era caduta nell’anomia, nell’assenza e nel dispregio della legge, sicché ciascuno dava norma a sé stesso, sicuro dell’impunità pubblica. L’eccesso di norme, non accompagnate da sanzioni severe, non invigorite da solenni appelli all’obbedienza, può condurre alla stessa “anomia”, alla smarrita convinzione che – direbbe Tucidide – «è naturale goder qualcosa della vita» prima che il contagio irroghi la sua punizione.
Il richiamo all’obbedienza, indirizzato a vecchi e giovani, il considerare l’osservanza come garanzia di salvezza, svolgono una profonda efficacia educativa, e dicono all’individuo che sta soltanto nella sua volontà, nel consapevole esercizio delle sue scelte, di fronteggiare e vincere il morbo. La parola va pronunciata con il rigore di tono e la severità di voce, imposte dalla situazione storica.
Certo, al di là o al di sopra dell’obbedienza alle regole, c’è la paura del contagio e il carducciano rombo della volante (e qui sarebbe tutto da meditare il cupo e fascinoso libro di Chiara Frugoni sulle Paure medievali, scritto nell’età del Covid-19). Ma dove non c’è tremito della paura, o questa è elusa con fastidio o futile leggerezza, deve pur risuonare l’appello della polis: di questa terrena convivenza, in cui la libertà del singolo trova la propria misura, e a mano a mano si costruisce in osservanza delle leggi. Si suole rammentare che la parola obbedienza ha in sé l’“audire”, l’ascolto di chi riceve il comando e decide se obbedirlo o disobbedirlo.
E, poiché qualsiasi società è una comunità di ascoltatori, è ben necessario, anche per garanzia di parità con gli spontanei e solleciti osservanti, che a tutti giunga il severo appello della disciplina.