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 2021  marzo 26 Venerdì calendario

Le citazioni di Bob Dylan, da Omero a Bob Dylan

Non aveva dimenticato le parole. “Ma non riuscivo proprio a tirarle fuori. Mi sentivo umiliata”, rivelò Patti Smith dopo l’accidentata esecuzione di A hard rain’s gonna fall di fronte ai reali di Svezia e ai notabili premiati con il Nobel 2016. Quel riconoscimento non spettava a lei, ma Dylan latitava: così alla cerimonia di Stoccolma andò la Smith a rappresentare l’elusivo bardo folk-rock. Lottò con la voce che non voleva uscire dalla gola, chiese di riprendere il pezzo dopo un’esitazione, provò un senso di fallimento subito cancellato dall’ovazione della sala. Patti capì a sue spese che quelle liriche avevano un’origine misterica, e che Dylan è un’insidiosa trasfigurazione, un Altro inafferrabile in un Altrove spaventoso, un’identità sovrapposta a mille simili, uno spettro poetico che capta frasi e consapevolezze giunte fino a noi dalla stratificazione di millenni di coscienza umana. Nessun testo è mai ‘solo’ di Dylan. In ogni verso, scavando, troverai un frammento, un coccio, un reperto rivelatorio.
Bob non nasconde mai la domanda di ‘prestito’ creativo: fa balenare nelle canzoni le ombre dei Padri della lirica greca e romana, e le indica. Sta allo studioso recuperare il riferimento intertestuale, il gancio tra Dylan e Omero o Virgilio, accettare l’idea che non si tratti di un plagio bensì di una rivendicazione di appartenenza, nel vertiginoso ‘viaggio’ del Nostro verso un’eternità letteraria, la passeggiata di una rockstar al fianco degli spiriti eletti, come Dante nel Limbo. Per districarci nella foresta di simboli del menestrello di Blowin’ in the wind, preziosa è l’analisi di Richard F. Thomas, docente di lettere classiche ad Harvard e animatore di un seminario sull’opera omnia del cantautore. Nel suo volume Perché Bob Dylan (Edizioni EDT), Thomas evita ogni pedanteria cattedratica e decifra con zelo da fan i segni di ‘contatto’ del massimo poeta rock con la tradizione epica. Segni che si sono andati moltiplicando, soprattutto nel nuovo millennio. Una delle prime scoperte di Thomas riguarda Lonesome Day Blues, brano chiave del capolavoro Love and thef, l’album pubblicato il fatale 11 settembre 2001. In alcuni passaggi (“Risparmierò gli sconfitti, parlerò alla folla/Insegnerò la pace ai conquistati/debellerò i superbi”) risuonava forte e chiara la voce virgiliana, il calco delle istruzioni impartite da Anchise a Enea nel periglioso viaggio verso quella che sarà, un giorno, Roma. Qui il volto dell’eroe troiano si sovrappone a quello di Dylan: il quale, sostiene Thomas, rivendica la sua ‘nascita’ elettiva proprio nella Città eterna. Nel suo liceo in una sperduta città mineraria del Minnesota, Bob era iscritto a un club di ultrà del latino, interpretava nelle recite un centurione, si beava con i kolossal del filone ‘tunica & toga’. Studiava Catullo, e più tardi molte delle sue ballate avrebbero avuto la risonanza d’amore di un Carme. All’esordio da folksinger si cimentò con un brano rimasto inedito, Goin’ back to Rome, in cui pretendeva i natali nell’Urbe (‘tenetevi il Madison Square Garden/Datemi il Colosseo’) e vi paventava un ‘ritorno’.
Era il 1963, lo stesso anno in cui a Roma venne davvero, inseguendo la fidanzata Suze Rotolo che per un breve periodo studiò a Perugia. Ben presto Suze rientrò in America: Bob si ritrovò solo, con il cuore spaccato, a Trastevere, dove suonò (da sconosciuto) al Folkstudio. Pensando a Suze compose a Roma Girl from the north country e Boots of Spanish Leather, mentre When I paint my masterpiece alludeva a un soggiorno in via Sistina in compagnia di altre ragazze. In quel tempo tormentoso e fertile piantò ancor più profondamente le radici della sua ossessione romana, e anche a più di mezzo secolo di distanza se ne possono cogliere i frutti. Thomas ne ha trovati ovunque: nell’album Modern Times del 2006 ecco le odi oraziane, lo strazio per la separazione dall’amata Fillide cifrato in Bye Bye o l’esilio di Ovidio in Ain’t talkin’ e Workingman’s blues #2, con richiami letterali al Tristia. Mentre in Tempest, sei anni più tardi, Dylan torna ancora più indietro, fino a Omero, per poi riavanzare verso Shakespeare. Coltivando il pensiero per ‘trilogie’ di opere – come in Dante – e scippando anche autori più vicini nel tempo. Del resto, suggeriva T.S. Eliot, ‘I poeti immaturi imitano/quelli maturi imitano’. Ed è qui l’unico limite del libro di Thomas. Non tiene conto del più recente capolavoro dylaniano, Rough and Rowdy ways del 2020, dove accanto a una presa puntuale dall’Eliot dei Quattro quartetti o al trasparente titolo whitmaniano (I contain multitudes) trovi un paio di citazioni su Cesare (che dire di Crossing Rubicon?) e persino l’invocazione alla Mother of Muses per l’amore esclusivo di Calliope, custode dell’epica, la creatura ‘dalla bella voce’. La dea dell’eloquenza.