ItaliaOggi, 25 marzo 2021
Il post Covid secondo Edoardo Nesi
«Io non potevo fare un libro sul Covid, ho voluto fare un racconto dell’economia nella pandemia». Edoardo Nesi, classe 1964, pratese, vinse lo Strega un po’ più di 10 anni fa, con un libro che fece molto parlare di sé e di lui: «Storie della mia gente» (Bompiani). Raccontava il declino di un intero distretto industriale, quello pratese del cardato, ossia dell’industria tessile che recuperava la lana vecchia e la trasformava in nuova. La globalizzazione l’aveva schiantato in quattro e quattr’otto, e Nesi, scrittore e industriale, figlio di industriali, ne raccontava, con sofferenza, l’agonia. Con «Economia sentimentale» (La Nave di Teseo), uscito alla fine dello scorso anno, lo scrittore si cimenta con la pandemia, con l’Italia delle zone rosse e delle fabbriche chiuse, quella della prima ondata.
Domanda. Il suo racconto si ferma sul limitare della seconda, quella d’autunno, e ora siamo alla terza.
Risposta. Ci avevo creduto.
D. A che cosa?
R. Ci avevo creduto, Pistelli, al discorso che sarebbe tutto finito con l’estate. Avevo letto del «Covid clinicamente morto» e ci avevo creduto, l’ammetto. Avevo pensato che si fosse fuori da quest’incubo e quindi, quando è ripartito, è stato terribile. L’ho sentita come una sorta di vera maledizione, l’ho presa male. È oggi siamo chiusi ancora in casa: Prato è zona rossa, ho amici in ospedale che mi dicono dei disastri che succedono.
D. Se dovesse scriverne il seguito?
R. Non so, se ce la farei, se ne avrei la forza, perché mi è costato molto farlo. Volevo fare due cose: un libro su mio padre (scomparso nel 2018, ndr) e uno sull’economia nella pandemia. Poi, a un certo punto, ho capito che erano lo stesso libro: perché tutte le cose che so dell’economia e dell’impresa è stato lui, i’ babbo, a insegnarmele.
D. Suo padre che, con lei ragazzino, a guardare la skyline di Los Angeles, gli confessa la soddisfazione d’esser arrivato sin lì, «da nipote di ciabattino e figlio di tessitore».
R. Già e poi mi disse che il mondo era libero e immenso e pieno di promesse e di felicità e di prosperità, e che se mi fossi impegnato, se avessi lavorato quanto aveva lavorato lui, mi sarebbe andata cento volte meglio. E ogni giorno capivo che era vero: a Narnali, a Prato, si vedeva creare benessere dalle fabbriche: per noi, per le persone che lavoravano per noi, per gli operai. Piano piano ognuno si arricchiva, miglioravano il proprio stato.
D. In passato, proprio raccontando il declino pratese, aveva criticato certi aspetti della globalizzazione e le trasformazioni imposte al nostro lavoro e alla nostra economia. In questo libro, specialmente quando dialoga con lo statistico Enrico Giovannini, oggi di nuovo ministro, si spinga oltre, nel dire che cambierà tutto.
R. C’è una cesura forte, c’è un cambiamento che questo Coronavirus ha rappresentato: nel momento in cui uscire di casa significava rischiare la propria salute e farla rischiare ad altri e una parte importante di un sistema industriale si basa sulla frequentazione di luoghi fisici, in cui si comprano cose fisiche, se va in crisi quella roba lì, bisogna onestamente essere in grado di capire che, contro questa roba, il vaccino non c’è.
D. La crisi della sua azienda le è, in qualche modo servita, nel guardare a questa fase?
R. Se c’è una cosa positiva nell’aver dovuto vendere la mia azienda, anzi d’averne dovuto vedere l’agonia, in un momento di mercato terribile, mi ha abituato all’idea che le cose cambiano. E che cambiano magari in maniera repentina: le famose certezze industriali, basate su 40-50 anni di vita e di successi, che possono svanire da un momento all’altro. Che il mondo cambia in un attimo, com’è cambiato oggi. Per questo ho cercato la saggezza di Giovanni, prima di tutto uno scienziato, un grande statistico, ma anche una di quelle persone in grado di mantenere dentro di sé, miracolosamente, una fiducia nella politica nel senso più alto, cioè che sia ancora in grado di cambiare il mondo dalla parte del bene, verso un’idea di progresso. Nel momento del grande cambiamento mi è sembrato importante parlarne con lui.
D. A proposito, il suo personale rapporto con la politica, dopo la sua esperienza parlamentare con Scelta Civica, nella scorsa legislatura, come va?
R. Quella di Scelta civica fu un’avventura abbastanza incredibile.
D. Ripercorriamola. Lei veniva dall’Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo.
R. Montezemolo mi chiamò dopo aver letto «Storie della mia gente». Mi telefonò invitandomi alla Ferrari: «Devi venire», insisté.
D. E lei andò.
R. L’idea della Ferrari mi piaceva molto. Lui non lo conoscevo ma lo reputavo una persona interessante: uno che, nell’immaginario dell’italiano medio, aveva avuto tutto: il successo, i soldi, la Ferrari appunto. Di Italia Futura non avevo fatto parte, mi candidai un po’ last minute perché me lo chiese lui, convinto che si candidasse lui a sua volta, Montezemolo. Poi arrivò Mario Monti, e ci si legò a lui. Andò così. E, se ci pensa, quello che è successo a Scelta civica ha dell’incredibile.
D. In che senso?
R. Nel senso che il fondatore di un partito che prese il 10%...
D. Che sembrò poco ma poco non era…
R. Esatto. Si sperava di più ma non era affatto poco, ora ce ne rendiamo conto, anzi era tantissimo. Fu il Pd ad andar male, nel 2013.
D. La «non vittoria» di Pier Luigi Bersani…
R. Certo. Noi si doveva essere la gamba liberale di quell’alleanza, tenendo a bada gli eccessi di sinistra. Era una buona idea. Poi…
D. Poi?
R. Poi, in sei mesi, succede che Monti, ossia il fondatore dei quel partito, lascia tutto e va nel Gruppo misto. Una cosa enorme. Pensai a quanto davvero ci si potesse far del male. Peccato. E invece ora, ci sarebbe bisogno di un partito come quello, che prendesse il 10%, diciamo la verità…
D. Infatti, in questi giorni, si cerca faticosamente di mettere in piedi l’alleanza dei riformisti che farebbe festa a una percentuale simile. Ma quell’esperienza, Nesi, le ha lasciato un po’ di amarezza?
R. Sono stati cinque anni difficili. Per stare in Parlamento, si deve esserci un po’ nati, un po’ portati: è una cosa più da avvocati, da commercialisti e chi viene dall’impresa fa fatica.
D. Le professioni intellettuali, si diceva, magari più avvezze alla dialettica…
R. Tutti gli imprenditori che erano in Scelta civica la vivevano malissimo – penso a Alberto Bombassei (Brembo, ndr), a Luciano Cimmino (Yamamay), a Andrea Vecchio (Cosedil), a Paolo Vitelli (Azimut Benetti) – tutte persone di grande successo nei loro settori, arrivavano lì e quello che dicevano non contava nulla, perché l’ultimo grillino era più ascoltato di loro. Comunque no, la politica è una parentesi chiusa per me ma senza amarezza.
D. Nel libro c’è un dialogo col finanziere Guido Brera, in cui lei, a un certo punto, si zittisce, tanto è preoccupante lo scenario che lui le racconta: in cui il mondo economico viene monopolizzato dalle big corporation del digitale, i Faang: Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google.
R. Guido è un uomo speciale: un ricco che si preoccupa di cose che riguardano i poveri. Fa una beneficienza enorme, senza dirlo. Il suo mestiere è la previsione del futuro, perché raccoglie i frutti del denaro altrui che investe, in base alle previsioni che fa. Ed è abituato a immaginarselo, il futuro. Per quanto faccia paura, il domani monopolizzato da questi colossi lo vedo. Del resto basta osservare Donald Trump.
D. In che senso?
R. Nel senso che, come gli hanno tolto Twitter, non esiste più. Gli han tolto la sua arte, il suo modo. Magari parla ancora, ma non arriva a nessuno, perché Twitter l’ha «bannato», come si dice oggi. Il potere di questi mezzi è enorme. E l’online è imprescindibile: come si fa a immaginare un’impresa di successo che non abbia una vendita online e non sia online? È un futuro che, per chi ha 55 anni come me, bisogna sforzarsi di capire. Oppure lasciarlo correre ma non so quanto si possa lasciarlo correre senza preoccuparsene.
D. Lei a che livello di preoccupazione è? Su Twitter non c’è più, per esempio. Colpa degli «odiatori»?
R. No, non avevo avuto grandi problemi di haters. È che mi arrivava troppa informazione, troppe cose. E cose anche molto molto «ganze», intendiamoci. Seguivo degli innovatori che dicevano cose così interessanti da sentirmi continuamente forzato a seguire, a leggere. Poi.
D. Poi?
R. Poi mi accorsi, a un certo punto, che non facevo altro. Davvero, eh! Troppo interessante ma, appunto, troppo.
D. Ci si può difendere da questo strapotere?
R. La pandemia con questo «state a casa», rende tutto irreale, e tutto quello che diciamo oggi ci sembrerà, un giorno, il prodotto di menti malate, ferite, sicuramente convalescenti. Non siamo sereni, né possiamo esserlo. Ma mi rendo che vivendo in un mondo che sta così, è meglio provare di ritardare ogni decisione importante. E vediamo, intanto, se riescono a farci vaccinare.
D. Che ne pensa, come sta andando? Le piace la partenza di Mario Draghi?
R. Si deve sperare in Draghi: che ce la faccia, che acceleri, che faccia le cose per bene. Non c’è altra alternativa: abbiamo messo in campo i più bravi, con qualche eccezione legata alla politica (ride). Mi permetterei un po’ di suggerire, semmai, di fare meno annunci: al punto che siamo arrivati, ogni annuncio è per me irritante. Dire «arrivano 100 milioni di vaccini» non serve, meglio lavorare di più e parlare di meno: facciamo come Boris Johnson.
D. BoJo va come un treno coi vaccini.
R. Pensi lei: l’abbiamo preso per un cretino, gli abbiamo dato dell’imbecille…
D. Per il famoso discorso della immunità di gregge, quando poi si ammalò…
R. Già e ora va come un treno: ieri (domenica, ndr), se ho capito bene, hanno vaccinato 900 mila britannici. Da gennaio i casi sono crollati. E, se mi permette…
D. Prego.
R. Non era difficile! Arriva il vaccino? Prendiamo il vaccino! Quanto costa non è importante: costa infinitamente di più tenere chiuso un Paese. Che riflessione è stata quella sul costo dei vaccini? Che senso ha avuto mandare quelli bravi a trattare, come ha fatto la Commissione europea? Si doveva prendere più vaccini possibile, non era il momento di risparmiare sulla dose! Dovevi prenderli. E immunizzare.
D. Forse i bravi negoziatori europei avrebbero dovuto essere più imprenditori e meno funzionari?
R. Ci voleva un pratese: «Quanto vu’ volete? Li compro tutti io». Come facevano i miei vecchi concittadini quando andavano al ristorante e non li servivano per tempo. Allora chiedevano quanto costasse tutto il locale, per comprarselo.
D. La generazione imprenditoriale di cui anche lei racconta in questo e in altri libri, può tornare? Quel mondo cioè è perduto per sempre? O è destinato a sopravvivere nelle nicchie, alla Brunello Cucinelli?
R. Cucinelli l’ho incontrato una volta. Un personaggio di provata intelligenza, nel senso che ha fatto le cose per conto suo, come ha creduto giusto, come gli è parso, e ha fatto molto bene. Lui però è un fuoriclasse, uno ha cui è riuscito fare quello che spiegavano i manuali: entrare esattamente in una nicchia. Ma una nicchia è, appunto, uno spazio molto piccolo e negli spazi piccoli ci stanno poche persone: quando Cucinelli ottiene quello che ottiene, e lo fa in modo bello, con la partecipazione, non è che poi, automaticamente, si genera un movimento. Nel distretto di Prato non ne abbiamo avuti di imprenditori così ma era un mondo fatto di piccoli imprenditori che ne generavano molti altri. E oggi non vedo come si possa ripartire. Forse dalle start-up dei giovani, da quell’innovazione.
D. A proposito di partecipazione, Enrico Letta riguadagnato alla politica, ha detto di voler puntare alla partecipazione dei lavoratori nelle aziende, un po’ alla tedesca.
R. Ho come l’impressione che vada ricostruito un modello industriale ma anche di comunicazione industriale: quando la mia azienda è andata male e ho dovuto vendere, io e la mia famiglia siamo stati molto soli. Il supporto delle istituzioni, per esempio, era inesistente. Credo che se gli imprenditori si sentissero meno soli, questa cosa della partecipazione potrebbe andar bene. A patto che non la vivano come un’intromissione. La Germania l’ha saputo fare e bisogna guardarci dentro a quel modello.
D. Di Letta che pensa?
R. Il fatto che Letta si tornato mi pare una buona idea: l’ho sempre stimato come uno bravo, capace. L’ho conosciuto e apprezzato. E poi ora mi pare anche un po’ indurito, cosa che non può che fargli bene. Vediamo. Diamogli qualche possibilità.
D. E invece Matteo Renzi? Lei, dopo Scelta civica, non confluì nel suo Pd?
R. No, no, andai nel gruppo Misto. La cosa buffa che io non mi iscrissi nemmeno a Scelta civica: mi candidai in corsa e crearono il partito quando ormai ne ero uscito: non feci in tempo. Renzi devo dire che lo stimo molto: secondo me ha grandi doti, con qualche difficoltà di carattere, peraltro abbastanza nota (ride) ma è uno che ha i numeri. Poi, sa, la politica è molto difficile: a volte la disinvoltura ti esalta, altre volte di condanna. È un ambiente nel quale ci si può fare molto male, la politica, anche senza accorgersene.
D. Senta Nesi, mi farebbe piacere che lei rileggesse questa intervista. Gliela mando.
R. Volentieri, ce l’ha il mio indirizzo mail?
D. Ne avevo una di… Aspetti che controllo... di virgilio.it. Di un tempo cioè in cui l’online non ci dominava, diciamo.
R. Eh sì, un po’ stagionata ma, ammetterà, per uno scrittore gli è perfetta (ride).