la Repubblica, 25 marzo 2021
Intervista a Mario Martone
«È da quando ero ragazzo che cerco nuovi linguaggi nel suono delle parole d’un melodramma verdiano», dice subito Mario Martone. E ricorda quando, nel 1982, «ventiduenne, annunciai ai miei di Falso Movimento che avremmo lavorato su un Otello non da Shakespeare ma da Verdi-Boito, e così fu, lo portammo in giro nel mondo per tre anni». Ora, grazie al Teatro dell’Opera e a Rai Cultura, col maestro Daniele Gatti battezza il 9 aprile su Rai 3 la regia e le scene di Traviata di Verdi-Piave per sperimentare, d’accordo col sovrintendente Carlo Fuortes, una nuova forma teatrale sulla scia del Barbiere di Siviglia.
Martone, lei mette in scena la teatralità di Lisette Oropesa (Violetta), Saimir Pirgu (Alfredo), Roberto Frontali (Germont padre) e gli altri in una “Traviata” con nove telecamere, platea, palco e interni del Costanzi, e esterni come Caracalla e via Torino. Che definizione merita?
«Difficilo dirlo. È teatro che si scioglie in cinema, cambia il suo stato fisico e diventa fluido. Così si penetra nelle pieghe della partitura cogliendone ogni elemento drammaturgico.
Verdi, Rossini non sono solo grandi compositori ma anche grandi autori di teatro. Sono il nostro teatro nazionale, come Shakespeare per gli inglesi e Molière o Corneille per i francesi. Nella nostra impresa ha influito la pandemia, il rumore della vita in una sala vuota. Artisti e tecnici hanno dato il meglio in cinque giorni».
Manca una parola-chiave per questo mix di musica, teatro, cinema e tv.
«È vero, non c’è. Ma una Traviata così è certamente cinema, cinema espanso, si sarebbe detto ai tempi dell’avanguardia. Rigorosamente integrale, a differenza di film che rimaneggiavano l’opera. Con Gatti abbiamo escluso ogni taglio, segmentando e rimontando i frammenti di scene, arie, cabalette e ripetizioni. Con una concisione che ha precipitato il set nell’incandescenza d’una performance».
Che elasticità interpretativa ha trovato nel cast lirico?
«Quella necessaria all’opera.
Leggendo le lettere di Verdi, come quelle di Mozart, è chiara la loro determinazione teatrale. Verdi si batteva perché i cantanti avessero espressività scenica e non solo vocale. Le opere nascevano come teatro. Loro non avrebbero mai immaginato l’avvento di dischi e cd.
Con la regia contemporanea e con lavori come questi miei “film” il piano canoro e quello attoriale si armonizzano e in sintonia con Gatti sono intervenuto su artisti predisposti a modalità di oggi. In tempi stretti, concentrati, in rapporto con le esigenze del set. Un grande lavoro collettivo».
Veniamo a “Traviata”. A parte i mezzi odierni, la storia è quella?
«Sì, come nel Barbiere si indossano costumi dell’epoca. Anna Biagiotti li ha creati rielaborando quanto ha reperito nei magazzini dell’Opera.
Come ho fatto io per le scene, a cominciare dall’enorme lampadario di cristallo. È come se nel teatro chiuso per Covid una compagnia nottetempo avesse arraffato quel che c’era e ne avesse fatto elementi per la messa in scena. Del resto Traviata si comprende meglio nel suo tempo, in cui sbattere in viso a una cortigiana Dio, onore e famiglia rendeva chiara l’oppressione sociale. È tratta da La signora delle camelie di Dumas figlio, scandaloso quanto Le roi s’amuse di Victor Hugo da cui è ricavato
Rigoletto. Verdi è un ribelle».
Come restituirà questo azzardo,
ora?
«Grazie al gioco delle inquadrature posso mostrare, nelle due scene affollate delle case di Violetta e di Flora, un coro prevalentemente di uomini, senza alterare la musica.
Sembra che Verdi pensasse all’inizio a un coro maschile, poi diventato misto: ma non si tratta di mariti e mogli, le donne solo lì per compiacere. Con Michela Lucenti alle coreografie abbiamo lavorato per suggerire un clima morboso e dionisiaco. Anche le zingarelle e i mattatori, esposti al rischio del pittoresco, emanano una temperatura insinuante. La luce di Pasquale Mari è decisiva».
E i protagonisti?
«Non avremmo Violetta senza le capacità sceniche e cinematografiche di Oropesa. Con Pirgu abbiamo dato spessore teatrale all’Alfredo preda d’una cultura maschilista, che scoprirà assurda. E Germont è nelle mani di un fuoriclasse, Roberto Frontali».
Annunciava il debutto il 14 aprile, ora improbabile, di un’altra sua regia, uno spettacolo dello Stabile di Napoli, “Il filo di mezzogiorno” di Goliarda Sapienza, con adattamento di Ippolita di Majo.
«Ho messo in scena autrici come Ramondino, Morante, Ortese. Il confronto con le pagine femminili è sempre fecondo. Con Ippolita da anni scriviamo le sceneggiature dei miei film ma questo testo è stato una sorpresa. Goliarda Sapienza è stata una scrittrice straordinaria. Per merito dello Stabile il lavoro andrà avanti comunque. Riapriranno, i teatri. Dobbiamo crederlo con fiducia, e adoperarci perché avvenga».