Corriere della Sera, 24 marzo 2021
Intervista a Zubin Metha (racconta la sua vita)
FIRENZE «Venga qui, voglio raccontarle la mia vita», dice Zubin Mehta. D’un tratto, nella superba campagna toscana, le indicazioni per raggiungere la sua proprietà proseguono con rondini di legno disegnate dalla moglie Nancy. Nell’ascensore interno alla villa, il suono di cinguettii di uccelli. In soggiorno ci sono l’arazzo che regalò a Nancy nel giorno del compleanno, le foto con Horowitz e Emilio Pucci, che fu amico del celebre direttore il cui volto sorride sulla copertina incorniciata di Time.
Parlando con lui scorre il grande ‘900. Il 2 aprile su Rai1 c’è il tradizionale concerto da Orvieto, poi sulla piattaforma It’s Art andrà il Così fan tutte che sta provando nella sua amata Firenze, le cui famiglie importanti, ci disse una volta, dovrebbero essere più generose col Maggio, il teatro dove lavora da quasi 60 anni.
È cambiata la situazione?
Si fa ironico: «Ancora non sono generosi. Anche il governo è colpevole, mancano veri sgravi fiscali. Dovremo intercettare i turisti affinché non vadano solo agli Uffizi. Si devono sviluppare il repertorio e il gusto del pubblico. A Les Troyens di Berlioz c’erano appena 300 persone in sala. Per fortuna Nardella ci è vicino, non è come l’ex sindaco di New York Ed Koch che in 11 anni di mandato non venne mai a un mio concerto con la New York Philharmonic. Gli dissi, ma che ebreo sei che non ti piace la musica?».
Lei è stato legato alla Israel Philharmonic Orchestra.
«Per 50 anni! Lì ho maturato una coscienza politica. A Begin chiesi di mandarmi con l’Orchestra a suonare al Cairo, mi rispose che prima doveva firmare i settlement, gli accordi con Sadat. Non sapevo nemmeno il significato di quella parola. Con Netanyahu non sono d’accordo su nulla. Ho detto addio alla Israel. All’ultimo tour, con la Terza di Mahler, le donne dell’orchestra avevano il trucco sciolto dalle lacrime».
Ha conosciuto Alma Mahler, la vedova del musicista.
«Sì, nella sua casa di New York con mobili Bauhaus che sembrava di stare a Vienna. Mi tenne la mano tutto il tempo, nell’altra aveva un ventaglio di Kokoschka. L’atmosfera era decisamente teatrale».
Come nella Turandot alla Città Proibita…
«Il governo cinese non la voleva, dicevano che Zhang Yimou, il regista, girava film contro il loro paese. Così andai dal ministro degli Esteri con una scatola di biscotti al mango di Bombay. Se lo dirigi tu va bene, mi disse. Coprirono con dei drappi alcuni danni lasciati da Bertolucci quando girò L’ultimo imperatore. Erano ancora arrabbiati».
Ha dovuto rinunciare alla Salome alla Scala.
«Alle prove avevo problemi di concentrazione, facevo errori che non commetto. Una pausa e riprendiamo, dissi. Ma Meyer, il sovrintendente, insisteva per portarmi in ospedale. Era una leggera ischemia. Non ho sofferto, non ho sentito nulla. La Scala, quanti ricordi, il 4 aprile in streaming andrà un mio concerto…Al mio debutto, nel ’62, diressi i Sei pezzi di Webern, ci fu gente che chiuse i palchi rumorosamente in segno di protesta».
Lei ha avuto quattro figli, non dalla sua amata Nancy.
«Uno di loro, Ory, è nato da una relazione in Israele, c’erano problemi di comunicazione, non sono ebreo e non parlo ebraico. Adesso siamo amici, al servizio militare è stato premiato. Ad Alexandra, Nancy ha fatto da madre. Mia moglie ha sofferto molto».
La chiamavano l’indiano.
«Non come insulto, il razzismo lo ha vissuto mio padre, violinista in Scozia, non trovava una casa per dormire».
Come ha vinto il tumore?
«Tutto è nato da un problema al ginocchio. Il capo del team medico era israeliano, il chirurgo siriano, un indiano per la biopsia, i due oncologi, una greca e un tedesco. Ero a Los Angeles e non c’era un americano! La musica, e non è un cliché, mi ha aiutato a uscirne, era tutta nella mia testa, prima di addormentarmi. Quale porterei sull’isola deserta? La Messa in si minore di Bach che non ho diretto mai, mi fa paura, così la studio per il resto della mia vita. Il 29 aprile compio 85 anni. Li festeggio con un concerto a Berlino da Barenboim».
Un direttore si ritira?
«Non si ritira mai. Io mi sento giovanissimo. E torneremo alla vita di prima».
Lei lasciò l’India a 18 anni per studiare a Vienna.
«Arrivai nel 1954, una città distrutta dalle bombe, occupata dalle forze straniere. Ricordo lo sguardo duro dei soldati russi. I grandi della musica erano già tutti lì. Io ero cresciuto a Bombay con un’orchestra di dilettanti, gli ottoni della banda della Marina suonavano in uniforme, gli archi erano Parsi (la mia religione) e amateurs ebrei fuggiti. Ricordo Böhm con i Wiener. Posto in piedi, sul podio si sta in piedi, non è cambiato nulla! Quel suono è dentro di me ancora oggi. Per 18 anni ho cercato di riprodurlo alla Filarmonica di Los Angeles».
Capitolo Los Angeles.
«Era ancora di più la città dei divi del cinema, ambiente del tutto scollegato da noi. Per la musica era il deserto. A dieci minuti da casa mia il Centro della cultura tedesca era stato frequentato da Thomas Mann e Bertolt Brecht, che non si parlavano, Mann non era certo di destra ma l’altro era troppo di sinistra».
Il cantante più grande?
«Domingo. Il giorno che lo dissi ero con Pavarotti, un vero galantuomo, non fece alcun commento. Mi accolse a Modena con una torta».