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 2021  marzo 24 Mercoledì calendario

L’Italia di Alexander Metternich

Da sempre nella hit parade dei vittimismi nazionali, la frase-tormentone sull’Italia «mera espressione geografica» è sopravvissuta ai secoli, e dovremo tenercela. Ma in questi giorni un po’ speciali, colorati dalle celebrazioni dantesche, dal sentimento diffuso – persino nella Babele dei social media – di un’antica paternità, dagli appelli accorati di Sergio Mattarella e di Dario Franceschini, e presto anche dalla voce di Benigni che leggerà al Quirinale la Divina Commedia, la gracchiante vocetta tedesca del principe Metternich in marsina nera, decorazioni militari sul petto e tre o quattro amanti al seguito, stride peggio del solito.
Perché sì, a tutti piace lamentare l’Italia «nave sanza nocchiere» di Dante Alighieri, ma quando il nocchiero si chiama Metternich o Radetzky è meglio non averlo. E curiosamente, proprio mettendo insieme il Risorgimento e Dante, che si lagnava della disunità d’Italia con cinque secoli d’anticipo, la settimana del 25 marzo risulta tutta nel segno dell’identità nazionale. Il 18 marzo del ’48 i milanesi innescano la ribellione che farà tremare il regime degli austriaci, giustamente odiati (ogni milanese rinunciava a fumare, per boicottare i tabacchi in mano agli austroungarici, e loro gli sbuffavano in faccia le nuvole dei loro sigari, mentre il kaiser Francesco Giuseppe dopo le impiccagioni mandava il conto del boia alle vedove). Le giornate milanesi finirono vittoriosamente il 22 marzo; ma ora si aggiunge la celebrazione nazionale dantesca del 25 marzo, senza contare che il 17 marzo 1861 fu proclamata l’unità d’Italia. E chissà, forse a Mattarella e Franceschini questa settimana d’oro non spiacerebbe chiamarla “settimana dell’identità italiana”. Quanto innaturale, che quell’identità, tragicamente invocata da Dante, sia stata boicottata nel 1815 da un Congresso simile a un reality, in cui si ballava, si trincava e s’andava a donne (le più succose spigolature: Robert Ouvrard, Le congrès de Vienne – Carnet mondain, edizioni Nouveau Monde, 2014). Ma la natura odia gli eccessi: lo yang nasce dallo yin suo antagonista, e da Metternich uscì l’anti Metternich. Dal grande regista del Congresso di Vienna nacque Alexander (1811-1892), figlio illegittimo, futuro conte von Hübner e adoratore dell’Italia. Il papà già a 29 anni lo inviò in missione segreta in Italia. Era a Milano quando scoppiò la rivolta popolare, e ne lasciò ai posteri uno straordinario, fulminante diario: Un anno della mia vita – 1848/49 ( Ein Jahr meines Lebens – 1848/49), che meriterebbe una ripubblicazione (editori, ci siete?) per l’alta qualità letteraria e il valore documentario. Non a caso nel 1970 ne venne tratto un magistrale sceneggiato a puntate della Rai sulle Cinque Giornate, con un cast all stars dell’epoca: da Arnoldo Foà nei panni di Radetzky a Ugo Pagliai nel ruolo di von Hübner. Il taccuino giornaliero del figlio di Metternich diventò così, ironia della sorte, la vulgata della nostra tv pubblica. Ai fatti milanesi del giorno, il giovane conte von Hübner alterna commenti sull’Italia e la sua gente. Luglio 1848: «L’uomo italiano è arrivato già a maturità quando le altre nazioni cristiane si trovavano ancora ai loro primi passi nella via della civilizzazione (…). Non lascio mai l’Italia senza provare uno stringimento al cuore. Qual è l’incanto misterioso, costante, irresistibile, che, dai giorni di Carlomagno, attira lo straniero sul terreno classico di questo Paese privilegiato? Non può essere solamente il bel cielo, la bellezza naturale, l’abbondanza dei bei monumenti. La penisola iberica, la Grecia, altri paesi presentano i medesimi vantaggi. Si va ad ammirare i tesori e, soddisfatta tale curiosità, se ne viene via con rincrescimento, ma senza provare il bisogno di ritornarvi. Chi ha veduto l’Italia, al contrario, porta via con sé la smania di rivederla. Perché? La chiave dell’enigma si trova, ritengo, nell’universalità e nella continuità dei ricordi che le evoluzioni dello spirito umano hanno disseminato a profusione. Sono altrettante pietre miliari segnanti gli ultimi splendori e la decadenza dell’antichità, la nascita e i progressi dell’età moderna. Roma e l’Italia sono state per secoli il gran teatro del mondo, come dicevano i moralisti del XV e XVI secolo, la scena fragorosa dove si rappresentava la grande commedia umana». E poi l’apice: «L’Italia è la patria comune di tutte le nazioni civili. Roma e l’Italia rispecchiano il mondo. Ecco quella che io chiamo l’universalità dei ricordi».
Anche a Metternich junior non sfugge il ruolo chiave di Dante: il 15 marzo del ’48 evoca lucidamente l’autore della Commedia: «La nascita del sentimento italiano è da ricondursi agli inizi della lingua volgare di Dante. È sopravvissuto a tutte le vicissitudini, si è trasmesso di generazione in generazione». Gli sfuggono perfino sospiri da innamorato: «Ah! Amo l’Italia e la lascio con rincrescimento, e amo del pari gli Italiani. In mezzo alle loro numerose qualità apprezzo la loro perspicacia e la loro urbanità». Da viaggiatore esperto, si diffonde in osservazioni quasi antropologiche: «Facciamo l’ipotesi che voi parliate male la lingua del paese nel quale viaggiate: il tedesco riderà dei vostri spropositi, il francese ve li correggerà, l’inglese vi guarderà con aria spaventata, arrossirà, non vi comprenderà affatto e vi volterà le spalle. L’italiano, se non vi comprenderà, vi indovinerà. Affinché riusciate a comprendere la sua risposta, adopererà le dita, le mani, le braccia e soprattutto la mimica della sua fisionomia espressiva e mobile. Farà tutto ciò con premura, e nel modo più toccante. L’italiano non è solo perspicace, ha anche la virtù dell’urbanità. Urbanità che non va confusa con le buone maniere, che si acquistano con l’educazione e, per conseguenza, sono privilegio, dove più e dove meno, delle persone che hanno ricevuto una buona educazione. L’urbanità è istintiva o, meglio, è eredità di una lunga serie di generazioni ben allevate. Si trasmette col sangue; ha perduto, col volgere dei secoli, il suo carattere esclusivo ed è diventata appannaggio di tutta la nazione». Conclusione: «Da qualsiasi lato consideriate Roma e l’Italia, riconoscerete in esse la culla delle civiltà, e nell’italiano il suo primogenito».
Von Hübner farà una carriera fulminante: dopo Milano è ambasciatore a Parigi, poi nel 1859 ministro di polizia a Vienna, per finire ambasciatore a Roma, fino al 1867. Conservatore lealista ma illuminato, connoisseur di oggetti d’arte, annunciatore di un umanesimo transnazionale, insegna agli austriaci che l’Italia va percorsa brandendo la Divina Commedia e non il moschetto. Andrebbero letti nelle scuole, nelle piazze, i pensieri dell’anti Metternich e il suo amore disinteressato per l’«ostello di dolore» dantesco. Mentre le armate austriache avanzano in Nord Italia, gode non della brutale conquista, ma dell’ingresso nelle città di Dante, Petrarca o Machiavelli, altro suo autore favorito.
La storia, con i suoi simbolici rovesciamenti, mette le cose a posto. Che ne è del palazzo deliziosamente arrogante di Metternich padre, costruito proprio nell’anno del congresso di Vienna davanti al parco del Belvedere immortalato dal Canaletto? Nel 1908, dopo pacifiche trattative, finisce in mano dell’Italia: oggi ospita la bella ambasciata della «mera espressione geografica». In tempi di Covid lo si può gustare a distanza, in un bel volume di Francesco Scoppola (De Luca editore, 2007). E lo sceneggiato Rai del ’70, tratto dal famoso diario? L’edizione in dvd è tuttora in commercio e mantiene, dopo mezzo secolo, tutta la freschezza narrativa di un vero intellettuale, che ha capito l’identità italiana.