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 2021  marzo 24 Mercoledì calendario

Arrigo Sacchi parla dello stress da allenatore

Chiamatelo ombra, stress, angoscia. Chiamatelo come volete. È un momento che, prima o poi, nella vita capita. Arrigo Sacchi lo ha attraversato nel 2001. E ora ricorda.
Che cosa successe?
«Allenavo il Parma, giocammo a Verona, vincemmo 2-0, doppietta di Di Vaio e non provai nessuna emozione. Capii che ero arrivato al capolinea, non avevo più nulla da dare».
Che cosa fece?
«Chiamai mia moglie Giovanna e le dissi: “Basta, io non alleno più”. Poi mi misi in macchina e da Verona tornai a Fusignano».
Si era spenta improvvisamente la luce.
«Sono sempre stato un perfezionista, pretendo il massimo da me stesso e dagli altri. Dopo tanti anni, il mio corpo mi ha lanciato un segnale. Durante la carriera io pensavo soltanto al calcio, non ammettevo altre distrazioni: in trent’anni sarò andato al cinema 3-4 volte, eppure ero un appassionato di film. C’era soltanto il pallone, avevo escluso tutto il resto: non mi dava tregua, non avevo pace, dormivo pochissimo».
Prandelli ha dichiarato di aver scoperto un’ombra dentro di sé.
«Non so che cosa gli sia capitato, mi sento però di mandargli un forte abbraccio. È un uomo molto sensibile, sta vivendo un momento particolare e bisogna rispettare le sue scelte».
Fu proprio lei, quando era direttore tecnico del Parma, a volerlo in panchina. Ricorda?
«Estate del 2002. Avevo tre nomi sul taccuino: Delneri, Vialli e Prandelli. Gli telefonai e, molto onestamente, gli dissi che era il terzo nella graduatoria delle preferenze. Se gli altri non accettano e se tu aspetti, ti chiamo. Così accadde. E lui fece giocare molto bene quel Parma: c’erano Mutu e Adriano. Dopo due campionati lasciò: il Parma era a pezzi dopo il crac Parmalat. Ci ritrovammo in Nazionale, lui commissario tecnico e io responsabile del settore giovanile. È una persona onesta e un bravo allenatore».
Torniamo a lei: dopo il black-out come si comportò?
«Andai da uno psicologo. Gli chiesi: “Dottore, è normale quello che mi sta capitando?”. E lui: “Io sono un medico ma anche un appassionato di calcio. Le assicuro che non è normale quello che lei ha fatto nei trent’anni precedenti...”. Parole che mi tranquillizzarono. Lo stress, se viene gestito, è un potente carburante. Quando, invece, finisce che ti mette con le spalle al muro allora bisogna fermarsi. Lottare non serve a nulla, si deve soltanto recuperare la serenità». 
Prese anche dei farmaci per uscire da quel brutto momento?
«Mai preso nulla. Non che sia contrario, ma non ne sentivo il bisogno. Sa quando mi hanno dato qualche goccia, invece?».
No, dica.
«Quando facevo il dirigente ed ero teso perché non potevo più incidere dalla panchina. Però smisi, perché quelle gocce non mi facevano proprio nulla».
Vuol dire che fare il dirigente è più stressante che fare l’allenatore?
«Non credo, però si vede il calcio da un’altra prospettiva».
Come giustificò il suo addio al Parma?
«Dissi la verità. Parlai con Calisto Tanzi e gli spiegai che non ce la facevo più. “Ma lei rinuncia a un sacco di soldi” mi rispose. Era vero perché avevo firmato il contratto più ricco della mia carriera. Però non vedevo altra soluzione e prima di salutarlo gli dissi: “So che ci rimetto parecchio, ma non mi interessa essere il più ricco del cimitero”. La salute viene prima di ogni altra cosa».
Provò dispiacere?
«Avevo dato tutto me stesso, dunque ero a posto con la mia coscienza. Come lo sarà Prandelli, ne sono certo. Vede, io non ho neanche un rimpianto e questa è una gran bella cosa quando ci si volta indietro e si esamina il passato».