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 2021  marzo 24 Mercoledì calendario

Imparare dalle piante. Intervista a Stefano Mancuso

“Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere gli ospedali, le case di cura, le scuole e qualunque luogo dove si apprenda ricoperto di piante. Lo sa che esiste una letteratura scientifica sterminata che dimostra gli enormi benefici delle piante per la concentrazione degli studenti, mentre negli ospedali si consumano meno analgesici e la salute dei degenti migliora?”. Stefano Mancuso, scienziato, professore all’Università di Firenze – dove dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV) – autore, tra l’altro, di “Plant Revolution” (Giunti) e “La pianta del mondo” (Laterza), non si capacita del perché un atto così semplice e rivoluzionario come la messa a dimora di quante più piante possibile non sia all’ordine del giorno ovunque. “Tanto più”, aggiunge, “che i costi sono davvero relativi”. 
I giornali pullulano di inserti ecologici, sempre più persone coltivano orti sui terrazzi, l’editoria è piena di libri sugli alberi: secondo lei stiamo finalmente realizzando quanto siano fondamentali le piante oppure si tratta soprattutto di una moda?
Sicuramente l’attenzione per le piante sta cambiando, anche per la maggiore consapevolezza del disastro ambientale e climatico che abbiamo creato, e questa è una buona notizia, visto che fino a non tantissimi anni fa le piante erano materie per giardinieri o agricoltori. Che ci sia però una conoscenza davvero diffusa di cosa facciano le piante per noi e del fatto che noi, come animali, siamo letteralmente dipendenti da loro, mi pare di no. E invece le piante sono il vero motore della vita del mondo e quindi comprendere l’importanza che rivestono per tutti noi, e la loro complessità, è fondamentale.
I progetti per piantare alberi sono tantissimi, finanziati sia da aziende, come Treedom, che da istituzioni. Alcuni esperti però mettono in guardia da questa frenesia del piantare alberi, sostenendo che sia più fondamentale conservare ciò che abbiamo. 
Certo, in parte è vero, sono convinto che soprattutto le aziende utilizzino la messa a dimore di piante, per compensare le loro emissioni di carbonio, in maniera estremamente disinvolta (il cosiddetto greenwashing). Ma la necessità pressante di piantare quanto più alberi possibili resta e secondo me non è stata ancora ben compresa. È ovvio che bisogna conservare ciò che abbiamo ma le due cose non sono in contrapposizione: insomma, da un lato dobbiamo difendere “con le unghie” le piante che ci sono, dall’altro piantare nuovi alberi. Lo sa quanti alberi avevamo dodicimila anni fa, quando è stata inventata l’agricoltura, e quanti oggi?
In effetti no.
Dodicimila anni fa c’erano seimila miliardi di alberi sulla terra. Oggi ce ne sono tremila, cioè la metà. Ma ciò che fa più impressione è che duemila miliardi li abbiamo tagliati negli ultimi due secoli, il che vuol dire che con questa velocità tra due secoli rischiamo di non avere più alberi sul pianeta. Insomma dobbiamo piantare letteralmente per salvarci la pelle, e ovviamente dobbiamo piantarli per bene, nella maniera giusta.
Tuttavia spesso cittadini o comitati che pagherebbero di tasca propria per piantare alberi si trovano di fronte a un muro di frustrante burocrazia. 
La questione è reale, nonostante i tantissimi volontari c’è una difficoltà enorme legata alla burocrazia ipertrofica italiana, che rende qualsiasi cosa, anche piantare un albero, una fatica improba. E invece noi dovremmo immaginare città completamente diverse, dovremmo modificare con urgenza i nostri regolamenti e le nostre procedure per coprire le nostre città di piante. Per secoli le abbiamo pensate come luoghi separati dalla natura, invece io immagino, e sogno, un giorno in cui le città viste dall’alto con un drone siano così verdi da non essere distinte da ciò che le circonda.
Uno degli aspetti centrali del suo lavoro è la riflessione sull’etica delle piante, che proprio perché non si possono muovere sviluppano strategie creative di difesa e sopravvivenza. Quali di queste pratiche dovremmo mutuare anche noi umani? 
Per sintetizzare farei l’esempio di ciò che ci è successo durante il lockdown, quando siamo rimasti chiusi a casa e abbiamo sperimentato per qualche mese cosa significa essere una pianta. La prima cosa che è accaduta è che abbiamo cominciato ad avere attenzione per l’ambiente che ci circondava; in secondo luogo abbiamo scoperto l’importanza fondamentale della comunità, perché se non ti puoi muovere dipendi in maniera molto più importante dalla rete di persone che ci circonda. Poi c’è l’aspetto della condivisione e del mutuo appoggio, la capacità di costruire reti e condividere informazioni: è un’altra cosa che dovremmo imparare dalle piante. Infine c’è la questione dell’organizzazione: non scordiamo che le piante sono diventate padrone di questo pianeta, sono l’85% di quello che è vivo, noi siamo lo 0,3%, e sono arrivate a questo risultato perché rappresentano delle organizzazioni decentrate, distribuite, senza centri di comando. E proprio per questo motivo sono più robuste e creative.
Parlando di piante e cambiamento climatico: secondo lei mettere a dimora alberi è l’unico modo per assorbire le emissioni o vede altre possibilità? In ogni caso dovremmo cambiare il nostro stile di vita?
Vorrei essere chiaro: se anche piantassimo milioni di alberi ci regaleremmo qualche decennio in più. La soluzione definitiva sta nel non produrre più anidride carbonica. Tutti i nostri processi produttivi dovrebbero essere riconvertiti in maniera sostenibile e questo richiede costi e tempo. Da questo punto di vista c’è una cosa che mi preoccupa del racconto che si fa dell’uscita dalla crisi climatica e cioè il fatto che si parli della crisi ecologica come un’opportunità economica. Invece ci sono dei costi enormi che vanno tenuti presenti. Abbiamo distrutto il pianeta e vogliamo rimetterlo in piedi senza spendere un euro?
Cosa pensa, infine, del nuovo ministero della transizione ecologica? 
Da un lato credo che sia una buona idea, perché affrontare questi problemi richiede deleghe importanti, dall’altro non vorrei che si pensasse che il problema della nostra aggressione all’ambiente si possa risolvere con la tecnologia. Se c’è stata un’aggressione, la soluzione non può essere cambiando i sistemi con i quali questa aggressione avvenuta, ma comprendendo e eliminando i nostri modi di aggredire. Insomma, sarebbe come dire che il problema del femminicidio si risolva aggredendo la donna in maniera diversa e sostenibile. Col nostro pianeta dobbiamo costruire un rapporto diverso e completamente nuovo: questa è la realtà.