la Repubblica, 23 marzo 2021
Intervista a Enrico Letta
ROMA – Enrico Letta usa la metafora dello sport per mandare un messaggio al Pd: “Bisogna passare la palla ai compagni. Solo così si fanno i punti, solo così si vincono le partite”.
Il segretario dem è intervenuto sul sito di Repubblica per la presentazione del libro “Che fine hanno fatto i bambini. Cronache di un Paese che non guarda al futuro”, edizione Piemme, scritto da Annalisa Cuzzocrea, una delle autrici di questa intervista. Un impegno che aveva preso da tempo, prima che il Partito democratico lo richiamasse a Roma. E che ha voluto mantenere, rispondendo alle domande sul tema.
E spiegando, tra le altre cose, il senso della sua decisione sui capigruppo dem di Camera e Senato. Li sceglieranno liberamente i parlamentari, ma dovranno essere donne: «Nel Pd ce ne sono di straordinarie, ma rimangono sempre un passo indietro, schiacciate dai rapporti di forza».
Com’è stato il rientro in Italia?
«Un po’ turbolento. Io nove giorni fa facevo un altro mestiere, avevo un’altra vita, insegnavo, e mi occupavo di ragazzi tra i 21 e i 24 anni. Un’esperienza fenomenale.
Dico sempre che mi ha cambiato la vita e che mi ha fatto guardare a quella generazione con occhi diversi».
Ha sorpreso la rapidità con cui ha deciso tornare, in quarantotto ore.
«Secondo me la politica, la passione che uno ha dentro, alla fine non si sopisce mai. Io ce l’ho da quando al liceo Classico Galileo Galilei mi candidai a fare il rappresentante degli studenti in consiglio d’istituto a 15 anni e da allora non mi ha mai abbandonato. Quando ti spiegano che quello che puoi fare può servire a delle persone – e i messaggi di questi giorni mi fanno pensare che stiamo facendo qualcosa di utile, di importante – alla fine ti dici: “Perché no?”. Se avessi rifiutato, non avrei potuto nemmeno parlare dopo. La mia parola non sarebbe più stata molto credibile. Ho passato questi anni a invogliare i ragazzi – anche quelli della scuola di politiche – a impegnarsi. Non avrei potuto più farlo se avessi disertato».
Alcuni dei suoi studenti sono venuti a Roma con lei?
«Sì, accanto a persone che sono sempre state con me, Monica Nardi, Marco Meloni, porto un team di quattro studenti che hanno studiato e si sono laureati con me in università a SciencesPo. Uno di loro si chiama Michele Bellini, viene da Cremona, è diventato il mio assistente. Insieme a lui si è creato un gruppetto che sarà il mio cervello».
Età?
«Adesso sono tutti tra i 25 e i 30 anni».
Leadership significa anche sapere scegliere le persone di cui circondarsi?
«Le scelte al ribasso ti si ritorcono contro. Io credo che sia importante circondarsi di persone capaci di giocare in squadra. Una delle cose che mi sono piaciute di più della settimana scorsa è stata chiamare a far parte della segreteria Mario Berruto, ex ct della nazionale di volley. L’ho scelto non solo perché si occuperà di sport, ma perché vorrei che girasse nelle periferie del partito per fare la sua presentazione dell’idea di coach e di gioco di squadra. Una cosa che dice sempre è che se passi male la palla all’altro, perdi il punto».
Fuori di metafora, lei ha parlato della necessità di cambiare i capigruppo puntando sul grande tema del genere. Ma può essere solo una questione di quote? Nella sua esperienza di lavoro, ha trovato indifferente, o diverso, lavorare con uomini o donne?
«Nella mia università sulle materie che insegnavo io, scienze sociali e relazioni internazionali, le donne sono circa il 65% e i maschi il 35% in termini di studenti. La vicenda dei capigruppo la voglio gestire così perché vorrei provare ad alzare un velo su un problema italiano che esiste. Quando ho posto in queste ore la questione della presenza femminile nel Pd sono partite diverse critiche, secondo alcuni lo starei facendo per interessi o giochi miei. Ma in Europa, il fatto che ci sia un equilibrio di genere è la precondizione. Uno schema per il quale un partito come il nostro ha nelle posizioni di vertice, segretario, capigruppo, ministri, presidenti di Regione, solo maschi, non è in linea col resto del mondo. Non è sufficiente la questione delle quote.
Sono a favore, ma funzionano sui gruppi di persone. Il problema sono gli incarichi monocratici che da noi sono tutti al maschile perché abbiamo un meccanismo di selezione basato sulla forza».
L’unica leader di partito donna è di destra, Giorgia Meloni. E le ministre, nel governo, sono tutte di altri partiti. Questa è stata una ferita nel Pd?
«Se io guardo alla sinistra in Europa i personaggi più interessanti sono, in Francia, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo, in Spagna le ministre degli Esteri Arancha Gonzalez e della Transizione ecologica Teresa Ribera. Noi dobbiamo stare dentro questa partita avendo uomini e donne. Sono stato accusato in queste ore di dire “donne purché sia”, ma non è così.
Sono sicuro che i gruppi sceglieranno sulla base di una selezione e sceglieranno votando donne di qualità. Ne conosco moltissime di straordinarie nel Pd, sempre un passo indietro perché il sistema è organizzato attorno a dinamiche che le schiacciano».
Il Pd, che con alcuni suoi presidenti di Regione ha chiuso le scuole prima di ogni altra cosa, è in grado di parlare alle nuove generazioni?
«Credo che un partito progressista votato solo da anziani non possa reggere nel tempo. Nell’arco di questi anni, la cosa più dolorosa per me è stata la sequela di ragazzi italiani che studiavano a Parigi e mi chiedevano: “Professore, mi dia una ragione per tornare”. Stentavo a trovare argomenti forti, convincenti, e questa è una perdita secca per il Paese. La proposta del voto ai sedicenni, sbeffeggiata da molti, parte da qui: dalla necessità della politica di interessare i ragazzi e al tempo stesso di rispondere ai loro bisogni e ai loro problemi. Mi dicono: guardano solo l’iPad. Gli farei vedere certi adulti».
Sullo Ius soli, che lei pure ha rilanciato, c’è stata in questi anni molta timidezza del Pd. Che rischia di aumentare, ora che è al governo con la Lega.
«Penso sia sempre stato uno dei punti forti della nostra identità, del nostro impegno. Lo sarà anche con me, ci metterò più carica. In Europa un Paese che era ridotto come noi, con l’inverno demografico, era la Germania. Molti Paesi hanno una demografia che si sta inaridendo, Romania, Bulgaria, Spagna, Portogallo. Io ho vissuto in questi anni in Francia, il Paese che – insieme agli scandinavi – ha invertito questa rotta, perché ha investito per farlo.
Ha capito che donne e uomini sono diversi e che le donne vanno accompagnate, non discriminate, nei loro percorsi lavorativi».
È fiducioso nella possibilità di costruire un’alleanza larga, che comprenda anche il Movimento 5 stelle, nelle città che vanno al voto alle prossime amministrative?
«Ho detto al partito in tutte le città che votano: ci prendiamo una settimana di tempo e facciamo un punto della situazione. Ringrazio Roberto Gualtieri che è un ottimo candidato per Roma ed è una grande opportunità per il Pd. Ho fermato però tutto perché siccome devo assumermi la responsabilità di aiutare i territori in una partita molto importante vorrei avere tutti i dati a disposizione».
Lei è amico di Bersani, ha parlato in questi giorni con Calenda. Nel partito che immagina, largo con le porte aperte, tutti quelli che sono usciti dovrebbero rientrare?
«Rispetto tutti, sono storie diverse che voglio affrontare con ognuno di loro e capire meglio. Non sono uno che su questi temi, quando di mezzo ci sono storie personali, butta lì una soluzione a caso o una battuta.
Faremo le scelte giuste nel modo giusto, ben ponderate, al momento opportuno».