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 2021  marzo 22 Lunedì calendario

la Milano di oggi, ma sembra la Wall Street del ‘29

Il ceto medio è in strada, attonito e spaurito di fronte alla normalità perduta e aspetta in lunghe e dignitose file il proprio turno per un pasto caldo È la Milano di oggi, ma sembra la Wall Street del ‘29. Ancora una volta una fotografia.Ritrae una fiumana di gente, a Milano, e fino a un anno fa si poteva azzardare che stessero in fila per i saldi all’outlet o per il nuovo Iphone. Invece no: la versione 2021 del “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo ci consegna non una parata ma una processione in cerca di un pasto caldo. Sarà che i numeri fanno sempre meno effetto dei visi e dei corpi, ma il primo colpo è veder racchiuso in un’immagine il significato concreto di quei due milioni di nuovi poveri che l’Istat ha censito dopo un anno di pandemia. Ed eccoli qua, adesso li vediamo, stanno immortalati in questo scatto metropolitano sul marciapiedi all’angolo con viale Toscana, in attesa di ricevere i generi di prima necessità distribuiti dai volontari di “Pane quotidiano”.Guardateli, osservateli. Posture, abbigliamento, accessori… è evidente che non si tratta né di senzatetto né di derelitti borderline, bensì di esponenti del ceto borghese così come lo concepiva Pasolini, ovverosia individui emersi con i proventi del loro lavoro dal sottoproletariato urbano e da esso emancipati con orgoglio, riconoscendosi in un nuovo statuto di riti, mode e attitudini.Sennonché, giunse la retromarcia del Covid. Per cui il dramma di questa fotografia risiede non soltanto nel clamore oggettivo di un’umanità indigente, ma assai di più nella retrocessione sociale (e identitaria, voglio dirlo) di chi si trova d’un tratto obbligato a chiedere aiuto, a scendere per strada mostrandosi debole, indifeso, a rischio, laddove tutta la storia della borghesia – da Goldoni a Fogazzaro e Moravia – racconta la fierezza dell’autonomia, dell’indipendenza economica, del sudato ostentato benessere.Tornano subito alla mente, dunque – con coincidenza sorprendente – le famose foto in bianco e nero della Grande Depressione americana, scatti in cui a far la fila per il proverbiale tozzo di pane era il ceto medio spazzato via dalla crisi di Wall Street, e ritratto anch’esso per strada, attonito e spaurito, nella contraddizione di quei cappotti, cappelli e cravatte all’apparenza inconciliabili con i crampi da fame. Nel nostro caso, a far da contrappunto alla processione dei neopoveri, è lo sfondo architettonico che si staglia alle loro spalle: le linee rotonde e soavi del campus Bocconi inaugurato pochissimi mesi prima della pandemia segnano la memoria spietata di uno ieri che pur vicinissimo si coniuga al trapassato remoto, quando ancora era permesso ipotizzare un alveare di studenti brulicanti fra aule, mense, alloggi comuni, piscine e svaghi nel verde. Oggi che la didattica si svolge a distanza, seduti fra il citofono e la lavatrice di casa, d’un tratto la struttura in ferro e vetro dell’illustre Ateneo non appare più come un monumento alla sostenibilità green, ma come l’agghiacciante quinta teatrale di una tragedia in atto, quella di migliaia e migliaia di famiglie che oltre al reddito hanno perso la fiducia di poter mantenere in piedi la grande sarabanda di rate, canoni e abbonamenti di cui era costellata la quotidianità pre-Covid di un ceto medio tutto smartphone, pay-tv, app e download d’ogni genere. Era il livello minimo di uno status che d’un tratto si è rivelato costosissimo da mantenere, ma che risulta indispensabile per chiunque vi sia cresciuto dentro per anni, tanto da tradursi in perimetro del proprio esistere.È il vero trauma che stiamo vivendo, nella consapevolezza sempre più lucida – che la tanto sospirata normalità, anche qualora tornasse, non sarebbe comunque più sostenibile.