Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2021
Mozart così licenzioso e tenero
Agli inizi degli anni Ottanta, quando debuttò con clamore a Salisburgo, il Così fan tutte di Muti era il Mozart con l’accento. Oggi, quattro decadi dopo, l’accento è ancora lì, scintillante nell’articolazione delle note brevi, virtuosistico e veloce tra note legate e staccate, esatto, matematicamente esatto. Come lo scambio di coppie: il tradimento incrociato tra le due sorelle e i due amici, dove la forza della passione lentamente affiora e infrange il cristallo degli affetti.All’accento però il braccio del più mozartiano dei nostri direttori ha aggiunto tutta una serie di indicazioni. Più tenere e sottili, a formare il suo nuovo vocabolario, al presente.La predilezione per i “mezzo forte”, ad esempio, che diventano la tinta di base della trama. Oppure lo sbalzo costante della linea delle viole, in particolare quando scritte a valori larghi, un nastro di nostalgia sotto la frenesia degli altri pentagrammi. E poi, soprattutto, il canto: che è sì, magico e astrale, come solo a Mozart riesce, ma non si scolla mai dalla parola. Muti ora la chiede più sciolta, di scorrevolezza quotidiana. Semplice quando tocca gli abissi e ostentata, se erotica e malandrina. Il Così fan tutte ci arriva in video dal Regio di Torino, dove è stato registrato a porte chiuse un mese fa – tra marce trionfali e scambi di sottintesi, da casa sabauda a regno borbonico – e rimane fruibile liberamente sul sito del teatro, fino a settembre. Merita di essere visto.O anche rivisto, per quanti già fossero scesi in pellegrinaggio, al San Carlo, dove a fine 2018 lo spettacolo era nato, con la regia di Chiara Muti, fresca e giocosa, tra flash di omaggio a Strehler, con le scene bianco su bianco di Leila Fteita e i costumi di un Settecento rivisitato di Alessandro Lai. Merita perché ci conferma un dato scientifico, già peraltro ampiamente sperimentato: la capacità di Muti di trasformare il suono di una qualsiasi formazione. Mettetelo al volante di un’auto arrugginita e con lui diventa una Ferrari. In poco tempo. Subito dalla prima prova. Questo si chiama dono, perché non c’è tecnica che arrivi a spiegarlo, anche se ovviamente su un bagaglio minutissimo il risultato si fonda. L’orchestra del Teatro torinese non è appannata, possiede un repertorio ed era tra quelle che più lavoravano, pre-Covid. Ma mai l’abbiamo sentita tanto coesa, intrecciata, sonante e piena di energia.Il bello resta un requisito imprescindibile nell’estetica di Muti. Attacchi, arcate, respiri, appoggi, emissione: non si dà interpretazione senza nitore e trasparenza. Dalla bellezza della frase si parte. Con misura classica, regolare. Come collane di perle brillano i disegni dei legni, nella Ouverture, lucidi e esatti mentre si inseguono nelle girandole; i violini, nel Terzettino «Soave sia il vento» hanno quella velatura, di colore e di espressione malinconica, non solo per effetto della sordina, ma perché le quartine nuotano elastiche, morbide; l’oboe che anticipa l’arrendersi ultimo di Fiordiligi, disarmata e senza veli nel «Fa di me quel che ti par», è un volo da terra al cielo, se fraseggiato così (e quante volte non ce ne siamo accorti). Bel suono significa che ogni dettaglio contribuisce, anche il più minuto. Anzi spesso proprio lui. Fino alla fine.Su questa levigatezza, sul candore del do maggiore di partenza e di arrivo del Così fan tutte, si distribuisce senza pudori il libretto più sporcaccione (Beethoven) del teatro d’opera. E il più fitto di classicità, tra aspidi, idre e basilischi. Mozart sapeva perché. Non era solo per sbeffeggiare l’opera seria e farci ridere. Perciò ha senso mettere insieme una compagnia di canto tutta italiana.Già Fedele D’Amico si lamentava dello «Sceglierrò kvel brunnetinno», e si era nel 1955, quando la recitazione vestiva a maniche larghe, oggi improponibili. Ancor più in spettacoli registrati per la tv, per essere visti e sentiti in primo piano.Non c’è una battuta che sfugga, al sestetto preparato da Muti. Difficile scegliere da che parte stare: se sul fronte della soavità generosa, aristocratica di Eleonora Buratto o su quello più pungente e malizioso di Paola Gardina, le due sorelle. Perfette da sole, ma ancor più originali quando cantano insieme, che piacere l’intonazione o l’antifonario da chiesa, a restituire carattere, domande, paure, felicità, remissione. I due burattinai, don Alfonso e Despina, Marco Filippo Romano e una irresistibile Francesca Di Sauro, sono intinti nel gusto napoletano. Risate e sfrontatezze mordono la storia ad ogni fermata, tanto son fatti della stessa pasta il filosofo e la ragazzaccia. Sui due ufficialetti è Mozart a obbligare i cuori, perché pur col migliore Guglielmo – e Alessandro Luongo lo pennella ad arte – vince sempre Ferrando, il dolente. Qui Giovanni Sala, tenore giovane numero uno, pura poesia quel che mette nella tinta verso l’alto e nelle note piccole sempre sgranate.A tutti Muti consegna il segreto di un Così fan tutte a tinte pastello, di primavera. Persino al coretto, che finalmente canta piano «Bella vita militar» e veloce. Perché si sa, «finem lauda», come dice don Alfonso, ma bisogna arrivarci leggeri, dopo tre ore di musica, con la voglia di ricominciare.