Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2021
Storia della pirateria
La pirateria è fenomeno ricorrente nella storia, ma con lunghi intervalli tra una manifestazione e l’altra e con modalità differenti. Peter Lehr, docente di studi sul terrorismo e la violenza politica presso l’università scozzese di St. Andrews, tenta una sintesi tra i suoi diversi aspetti nel corso dei secoli, fino ad arrivare all’età presente. Il suo volume (I pirati, Mondadori, 2012) dovrebbe essere un testo universitario; ma, come è nella tradizione anglosassone, non fa troppa differenza tra accademia e divulgazione. Lo si legge con passione, e non contiene nulla di inaccessibile al lettore comune.
Piuttosto sarà difficile per uno studente presentarsi con questo libro a un esame. In tutta la prima parte, comprendente gli anni dal 700 d.C. al 1500, si salta con disinvoltura tra epoche e aree geografiche, attraverso una miriade di piccoli e piccolissimi episodi. Elenca momenti significativi ma non determinanti, incapaci di dettare chiavi interpretative generali sufficienti per dettare delle costanti. I pirati con cui aveva a che fare Roma antica non somigliavano molto ai predoni cinesi del 1200. I vichinghi (cui la definizione di “pirati” va un po’ stretta) costituivano un diverso problema per i regni costieri che subivano le loro incursioni. Il mix tra fatti ed epoche è affascinante da leggere, ma difficile da organizzare in un’analisi compiuta.
Impariamo comunque che pirati medioevali e rinascimentali non operavano solo per mare, ma anche per terra, dove puntavano a creare roccheforti, a volte delle dimensioni di autentici regni (Cina, i vichinghi); conosciamo i sistemi di difesa eretti dalle popolazioni aggredite più di frequente, come torri di guardia e fortilizi in zona collinare; apprendiamo i tentativi di vincere per numero il nemico, e così via. Quanto alle motivazioni dei pirati, Lehr cita la miseria, l’avidità e pochi altri moventi, che direi scontati.
Lo stesso taglio aneddotico informa la seconda parte (dal 1500 al 1914), che meriterebbe una trattazione meno semplificata. È infatti il periodo in cui le guerre tra potenze europee si trasferiscono in altri mari, e soprattutto in America Centrale. Il papa ha suddiviso il continente americano in sfere d’influenza, assegnando le regioni più prospere a Portogallo e Spagna, Inghilterra e Olanda vi si immischiano, rivendicando e conquistando fette di ricchezza. L’oceano Atlantico diventa passaggio di immensi velieri (i galeoni) carichi di tesori, dall’oro alle spezie. La pirateria si organizza per agguantare con la forza parte del bottino.
Qui Lehr cade in un errore semantico. Usa il termine “bucanieri” quale sinonimo di pirati, o meglio, di pirati francesi. In realtà i bucanieri erano cacciatori di professione, presenti sull’isola della Tortuga e nelle regioni occidentali di Hispaniola (oggi Haiti). Famosi per la loro buona mira, erano arruolati dalle flotte pirata quali fucilieri. In sostanza si comportavano da mercenari, ma terminato il mandato tornavano alla caccia.
Il fatto è che Lehr, pur sfoggiando un’ampia bibliografia, inciampa in un equivoco tipico di gran parte degli autori anglosassoni. Considera e privilegia i pirati di lingua inglese, trascurando altre esperienze. Ciò ha indotto molti autori britannici a parlare di “età dell’oro della pirateria” per i primi decenni successivi al 1700. Lehr non si spinge a tanto, però esalta la cittadina giamaicana di Port Royal quale autentico centro motore della pirateria caraibica. Dimenticando che, negli stessi anni, l’isola francese della Tortuga (La Tortue) era per intero un covo di fuorilegge del mare, non solo con bordelli e osterie, ma anche con una Chiesa cattolica ben impiantata e con un governatore, nominato da Luigi XIV, che riceveva una quota dei bottini e, trattenuta la propria parte, spediva le eccedenze a Versailles. Non è un caso se sir Henry Morgan, nel progettare la sua fortunata e sanguinosa presa di Panama, dovette rivolgersi ai “colleghi” della Tortuga, per radunare una flotta sufficiente.
Ciò prelude a un’altra, annosa, questione semantica: la distinzione tra “corsari” e “pirati”. La classificazione di Lehr è quella classica. I corsari (un nome fra tutti, Sir Francis Drake) avevano una “patente da corsa”, che li autorizzava a condurre per mare una guerra irregolare al nemico del momento della loro monarchia. Ma anche i pirati della Tortuga ricevevano un mandato simile dal governatore della loro isola, e pagavano un tributo al regno europeo cui si dicevano fedeli.
La differenza è molto sottile, e si fonda sul modo di procedere. Selvaggio, violento e disordinato quello dei pirati; di norma pessimi navigatori, che preferivano costeggiare piuttosto che spingersi al largo; più conforme ai canoni di guerra quello dei corsari, che figuravano nei ruolini degli eserciti del loro Paese quali ufficiali di marina. Salvo essere sconfessati, dice Lehr, dalla loro Corona se evadevano troppo dai limiti dell’accettabile e del legale.
Più largo di suggestioni e di interpretazioni è Lehr circa i pirati della Malesia, non tanto dissimili da come Salgari ce li ha descritti, dei mari della Cina e del Mediterraneo, dove la nave tipica da combattimento era la galea, che combinava vele e remi. Belle illustrazioni, nel volume, fanno capire di cosa si sta parlando. Ottime anche le mappe, guide a una narrazione complessa.
La parte più utile del libro, la più ampia, è però la terza, intitolata Nel mondo globalizzato (dal 1914 a oggi). Trattando della pirateria a noi contemporanea, Lehr svela le sue vere competenze. Tralascia l’aneddotica, svolge analisi rigorose sulla pirateria in Somalia, in Nigeria, in Indonesia, persino con qualche rigurgito nei Caraibi. Analizza legislazioni internazionali e mezzi di contrasto.
Questa parte del testo è fondamentale, data la scarsa letteratura in merito. Ciò che lo precedeva nel libro era, in qualche modo, romanzo d’avventure. Giunti all’attualità, si fa tragedia. Per i predoni del mare e per le loro vittime.