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 2021  marzo 21 Domenica calendario

Intervista a Guido Maria Brera

Romano, 51 anni, finanziere, Guido Maria Brera dal 2014 è anche uno scrittore, grazie al fortunato romanzo I diavoli, diventato l’anno scorso una serie Sky con Patrick Dempsey e Alessandro Borghi, tutta sulle distorsioni della finanza e le crisi identitarie dei suoi protagonisti. 
Come preferisce essere definito?
«Scrittore. Amo raccontare storie e mi piace farlo guardandomi intorno per cercare di capire bene quello che succede».
L’11 marzo di Brera è uscito Candido, nuovo romanzo firmato con il collettivo I Diavoli, una rilettura del racconto filosofico di Voltaire. Ambientato in un’allucinata Milano post-pandemia, il libro ha per protagonista Candido che, guidato da un algoritmo, fa il rider, guadagna in crediti sociali, e ama virtualmente Cunegonda. Pangloss, invece, è un ologramma che da ogni schermo della città gli dice che va tutto bene e che vive nel migliore dei mondi possibili, per poi impartire gli ordini della piattaforma social che gestisce ogni cosa. Lui crede a tutto, è contento e felice, fino a quando non subisce un torto. E tutto cambierà. Come, forse, tutto cambierà per le quattro piattaforme – Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats – multate un mese fa dalla procura di Milano per 733 milioni di euro e poi obbligate ad assumere come dipendenti almeno 60 mila ciclo-fattorini. Il 26 marzo ci sarà anche uno sciopero nazionale dei riders, mentre il 22, domani, è in programma quello dei lavoratori di Amazon che protestare contro condizioni contrattuali insostenibili. Non era mai successo.
Ha scritto un attacco alla globalizzazione, ai colossi del digitale, a chi ha fatto finta di niente?
«Sì. Racconto non tanto una distopia ma una realtà che in parte c’è già. I crediti sociali in Cina esistono, non sono una fantasia. Non immagino il futuro, ma quello che succederà fra cinque minuti. E la colpa è di chi ha fatto credere che andasse tutto bene, che ognuno può essere imprenditore di se stesso. È questa la grande menzogna della sharing economy. Ora, con il Covid, è chiaro a tutti che le grandi piattaforme hanno preso ogni cosa esasperando la diseguaglianza, frantumando le regole del mercato, demolendo i diritti».
C’è una soluzione?
«C’è sempre. La politica deve tornare a fare la sua parte».
Lei farebbe politica in prima persona? Gliel’hanno mai chiesto?
«C’è stato qualche ammiccamento, ma niente di più. Non la farei mai, comunque. Non resisterei agli attacchi ingiusti. Non sono un tipo da conflitti. Quando arrivano mi alzo e me ne vado, anche se ho ragione».
Finisce lì o si segna tutto?
«Non c’è bisogno. Ho buona memoria. Detto questo, mi piace sollevare questioni, analizzare, proporre».
Alla Sapienza di Roma sulla lapide che ricorda il professor Ezio Tarantelli, ucciso nell’85 dalle Br, c’è scritto che le utopie dei deboli sono le paure dei forti. Lei dice spesso di cercare da una vita quella frase in tutto quello che fa. Lei fa il finanziere...
«Sì, ma sono anche un cattolico praticante, faccio da sempre volontariato ho iniziato a Roma con la Comunità di Sant’Egidio – e non sono mai stato uno speculatore selvaggio. Non ho mai fatto affari con il delivery, per esempio».
Perché?
«Avevo capito da tempo che il bubbone sarebbe scoppiato. E giocare d’anticipo, prevedendo quello che accadrà, è un elemento fondamentale di chi fa buona finanza».
Mai puntato sulla globalizzazione?
«Chi fa il mio mestiere non può dire di non averlo mai fatto. Io da tempo lavoro soprattutto con la green economy. Sta cambiando lo scenario, in meglio».
Crede davvero alla favoletta del sistema che si può cambiare dall’interno?
«Non penso ci sia altro modo. Se lo butti giù qualcuno lo rifarà tale e quale, forse peggio».
Ho letto che a 30 anni, quando ha cofondato Kairos, la società di gestione del risparmio più importante d’Italia, si sentiva già vecchio: che voleva dire?
«Che avevo già avuto tanto: grandi responsabilità e grande successo».
Quel successo le ha mai dato alla testa?
«Sempre stato lucido e tranquillo».
Cosa accadde, allora, per spingerla a scrivere I diavoli?
«Le ragioni sono state due: la prima è far conoscere il più possibile questo mondo che determina la vita di tutti. La seconda è la mia crisi: arrivato in cima alla piramide, ho realizzato che si stava molto male».
Curiosità: come lavora un collettivo di scrittura?
«Ci vediamo e discutiamo, poi buttiamo giù. Di solito ci incontriamo a Roma in un bar a Testaccio di fronte a casa di Enrico Letta».
Chi sono i Diavoli?
«Siamo in sette. Scrittori, professori, giornalisti».
Visto che a pensare male non si sbaglia quasi mai, e che il nome della ditta è solo il suo, e lei è ricco e loro non compaiono mai, non è che sono dei rider della scrittura?
«Per carità. Siamo tutti alla pari. Ci siamo dati questa impostazione di squadra, ma la verità è questa: l’abbiamo scritto insieme».
L’equivoco più ricorrente sul suo conto?
«Passare per quello ricco che si vuole togliere lo sfizio di fare lo scrittore».
È uno sfizio?
«No. È una cosa seria».
Ha appena fondato la società Chora per la produzione di podcast: è un investimento o un progetto con qualcosa da dire?
«Con Mario Calabresi e Mario Gianani di Wildside vogliamo raccontare il nuovo e la contemporaneità».
Per ora avete realizzato solo quelli di Chiara Gamberale, Paolo Giordano, Enrico Mentana, lo stesso Calabresi. Se andate così sul sicuro le novità ve le perdete.
«Ci arriveremo. Siamo appena partiti».
Crede davvero nei podcast o è solo una forma embrionale per sviluppare altro?
«Diciamo che possono essere il primo passo per fare altro».
La sua ossessione numero uno?
«Il controllo totale».
Riesce ad averlo?
«No. Uno può organizzare fin nei dettagli, ma alla fine tutto va come deve andare».
Gli incontri importanti della sua vita?
«Fratel Ettore, che aiutava gli ultimi nella Stazione Centrale di Milano, e Walter Siti, intellettuale raffinatissimo. Un maestro».
Il primo grazie, d’istinto, a chi lo deve?
«A mia moglie Caterina (la conduttrice tv Caterina Balivo, madre di due dei suoi quattro figli, ndr). Mi ha incontrato in un momento difficile della mia vita e mi ha rimesso in piedi».
La cosa più importante da insegnare ai figli?
«Andare in trattore».
È una battuta?
«No. Bisogna saper andare anche sui terreni sconnessi».
Lei c’è mai andato?
«Certo. Non sembra ma la mia vita è piena di curve, salite e discese. E qualche caduta».
La peggiore?
«La separazione dalla mia prima moglie è stata lunga e faticosa. Poi si è sistemato tutto».
Più fiero di cosa?
«Di non aver mai perso il contatto con i miei primi due figli nonostante periodi di evidenti difficoltà».
La lezione più importante dell’ultimo anno?
«Siamo tutti sotto lo stesso cielo».