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 2021  marzo 21 Domenica calendario

Biografia di Mick Schumacher

Sono felice di riportare questo nome in Formula 1». Mick Schumacher prova l’orgoglio e l’emozione di entrare nel mondo che fu di papà. È un capitolo felice di una storia triste che comincia con un c’era una volta.
C’era una volta un pilota tedesco che era diventato invincibile. Era stato campione due volte con la Benetton e poi era andato alla Ferrari, dove nel giro di qualche anno aveva battuto tutti i record della Formula 1. Si chiamava Michael e aveva un figlio al quale aveva dato un nome simile al suo: Mick jr. Il piccolo Mick fin da quando aveva due anni giocava in giardino con il go-kart. Ammirava le imprese del padre senza ancora capirne la portata e andava a vederlo quando faceva i test nella pista privata della Ferrari a Fiorano, al riparo dalle folle di tifosi. E un giorno, quando aveva undici anni e stava seguendo un Gran premio in tv, decise che avrebbe ripercorso la carriera del genitore: sarebbe stato anche lui un pilota, sarebbe arrivato alla F1 e poi chissà. Ma in un brutto giorno di vacanza sulla neve, il padre cadde davanti ai suoi occhi mentre sciava e battè la testa. Da quel trauma Michael non si è mai ripreso: adesso vive circondato dall’affetto della sua famiglia, che ne protegge la riservatezza, lo cura e lo assiste giorno e notte, però nessuno sa altro di lui. «Lotta per riprendersi», è l’unica notizia che trapela dai pochissimi amici che sono ammessi nella sua magione a Gland, adagiata sulle rive del Lago Lemano, nel cuore della Svizzera.
L’uomo che aveva sfidato la velocità, che aveva vinto sette mondiali, che aveva gareggiato in pista contro un caccia Eurofighter, che aveva corso in moto durante il suo primo ritiro dalla F1, ha subìto gravi danni cerebrali in seguito a una caduta sugli sci durante una settimana bianca. Aveva addirittura cambiato casa di vacanza, dalla Norvegia alle Alpi francesi, per accorciare gli spostamenti e ridurne i rischi. Ma in questo modo non ha fatto altro che andare incontro al proprio destino, come il leggendario cavaliere che fuggì fino a Samarcanda dove la sorte lo attendeva. La bella favola si è interrotta lì. La famiglia ricca e felice ha dovuto rinunciare al papà, al marito, al campione.
Da quel 29 dicembre del 2013, diventare un pilota non è stato più un sogno per Mick, ma un imperativo. La Ferrari gli è stata vicino: l’ha accolto nella sua Driver Academy, gli ha insegnato i fondamenti e i trucchi del mestiere e alla fine gli ha trovato un sedile alla Haas. «Vai e mostraci che cosa sai fare», gli hanno ordinato. Dopo i test di metà marzo, la prossima, grande sfida è il debutto in Bahrein il 28 marzo. Dall’esordio di papà in Belgio sono trascorsi trent’anni.
Mick ce l’ha fatta senza raccomandazioni, che già presentarsi con nome e cognome gli avrebbe spalancato parecchie porte. Finché ha fatto palestra con i go-kart, punto di partenza di ogni carriera automobilistica, si è presentato al via come Mick Betsch, con il cognome della madre. Lo stratagemma l’ha aiutato a dribblare le attenzioni dei media e a evitare che gli puntassero subito i riflettori addosso. «Mi sono preso il mio tempo, senza fretta - ha raccontato alla vigilia dei test -. Non avevo nessuna attenzione mediatica all’epoca, il che era positivo: potevo essere un bambino, divertirmi a correre e fare i passaggi di cui avevo bisogno con il tempo che mi serviva».
Nel 2015, al debutto con le monoposto di Formula 4, si è ripreso con orgoglio il cognome paterno e ha accettato la pressione di media e tifosi. La sua carriera stupisce per linearità e precisione: nella stagione d’esordio si sforza di imparare, a costo di terminare nelle zone basse della classifica, per poi vincere l’anno successivo: dal 2015 al 2020, dalla Formula 4 alla Formula 2, è andato avanti di biennio in biennio. Tolta la stagione d’esordio, ha sempre guidato per il team italiano Prema, che gli ha fatto scuola in collaborazione con la Driver Academy.
Il debutto nei test in Bahrein è stato prudente, come è nello stile di Mick. Prima regola, imparare, evitare i danni, spingere con gradualità, tenersi un margine di sicurezza. Nei tre giorni di test a Sakhir ha concluso con il penultimo tempo (più lento di lui il soltanto Vettel alle prese con l’inaffidabilità della sua nuova Aston Martin). La Haas non è un capolavoro di competitività, quindi nessuno gli rinfaccerà di essere lento, ma un obiettivo il ragazzo se lo è dato: maturare. A fine anno, per dirsi soddisfatto, dovrà essere un pilota migliore.
Gli hanno chiesto se fosse pronto alla frustrazione: come George Russell che è sempre tra gli ultimi con la Williams, ma quando gli hanno affidato una Mercedes per sostituire Hamilton contagiato dal Covid è arrivato secondo in qualifica e ha mancato la vittoria per problemi tecnici. Risposta di Schumi jr: «Nel team siamo tutti molto motivati. Sento la passione e intanto cerco di crescere. La Ferrari? Sarebbe un sogno correre con la macchina di papà».
Il confronto fa parte del suo destino. Tutti guarderanno Mick e penseranno a Michael. Sempre. Tuttavia sarebbe un’operazione scorretta paragonare il figlio 21enne che debutta al genitore che demoliva record con la Ferrari. L’inizio sarà complicato, perché la Haas è gavetta come lo fu la Jordan per la prima gara di papà. Vogliamo fare un altro paragone? Hamilton debuttò in Formula 1 nel 2007 (appena dopo il primo ritiro di Schumacher, quasi fosse un passaggio di consegne) al volante di una McLaren che contendeva alla Ferrari il ruolo di regina. E da allora ha guidato soltanto macchine tra il competitivo e l’imprendibile.
Fra i due fenomeni delle corse c’è stata una continuità ideale. L’addio definitivo di Schumi a fine 2012 ha liberato il posto per Lewis in Mercedes. Mick è il prolungamento ideale della storia. «Mio padre è e sarà sempre il migliore», ha ripetuto più volte. Però l’anno scorso al Nürburgring quando Hamilton ha vinto il suo 91° Gran premio, raggiungendo il record di Schumacher sr, Mick si è presentato ai piedi del podio con un casco di papà in dono, rosso come la Ferrari ma marchiato Mercedes. Un gesto perfetto anche nella forma. «I record sono fatti per essere battuti. Un giorno spero di essere io a migliorare quello di Lewis», ha commentato.
In una recente intervista a La Stampa, Mick non ha voluto esprimere un giudizio sull’attivismo politico di Hamilton. Apriti cielo. Dai social gli sono piovute critiche che lo hanno costretto a precisare: «Sono stato male interpretato: sono contro ogni forma di ingiustizia e diseguaglianza e appoggio la lotta al razzismo». È un assaggio del mondo che lo aspetta: c’è Piazza Duomo a Milano che nel 2019 lo accoglie sul palco dei 90 anni della Ferrari come se fosse suo padre, e c’è il sottobosco dei social che non gli perdonerà nulla.
Lui si è allenato anche per questo. Il suo sponsor tecnico lo ha aiutato a lavorare sull’aspetto mentale, che nell’automobilismo è decisivo. «Nel nostro sport, se ami quello che fai, se hai un po’ di talento e sei disposto a lavorare ogni giorno e ogni minuto per realizzare il tuo sogno, allora molto probabilmente ce la farai». Parola di Schumacher jr.