Specchio, 21 marzo 2021
Ritratto di Gena Rowlands
Il padre di Gena Rowlands era un uomo estremamente orgoglioso della proprie radici gallesi, che aveva raggiunto un’invidiabile condizione economica grazie al lavoro di banchiere. La sua passione, tuttavia, era la politica, ed era fiero di far parte del Wisconsin Progressive Party, un partito indipendente per il quale aveva promulgato una serie di leggi. Lo rispettavano tutti, nella sua città di Cambria, come ammiravano la moglie Mary Allen, detta Neal, che si occupava dei figli e della casa, e non avrebbe mai pensato di diventare un’attrice sin quando John Cassavetes non la scritturò con il nome di Lady Rowlands insieme a Gena, di cui era diventato marito. Ho voluto raccontare questi dettagli del retroterra di Virginia Cathryn Rowlands, questo il suo vero nome, perché aiutano a capire qualcosa della sua personalità: la fierezza delle proprie origini, la vocazione all’indipendenza e la capacità di reinventarsi in maniera sorprendente. L’ho incontrata soltanto un paio di volte e sono rimasto immediatamente colpito dal grande carisma, temperato tuttavia da una ammirevole dose di autoironia. «Non riesco mai ad avere una faccia da poker», mi disse in occasione del nostro primo incontro, «forse questo mi fa essere un’attrice migliore, ma nello stesso tempo mi rende più venerabile come essere umano». Ero andato a intervistarla e rimasi colpito dall’assoluta disponibilità e dal fatto che mescolasse costantemente i riferimenti alla propria vita con quelli relativi alla carriera: del resto ben dieci dei suoi film li ha girati con il marito John Cassavetes, di cui diventò la musa.
All’epoca del nostro incontro aveva appena compiuto settant’anni, ed era bellissima: gli occhi erano enormi e lucidi, e le mani si muovevano con un misto di grazia e sensualità. Mi disse di sentirsi un oggetto estraneo rispetto al cinema che si faceva allora, ma poi aggiunse che forse era sempre stato così sin dall’inizio della sua carriera, e soltanto il marito John era riuscito a valorizzarne il talento originale e indipendente. Aveva già vinto quattro Emmy, due Golden Globes e l’Orso d’argento come migliore attrice a Berlino, e pensavo che fosse assurdo che le due candidature agli Oscar non si fossero trasformate in vittoria: solo qualche anno dopo gliene venne conferito uno alla carriera. Mi parlò del fatto che quando era giovane, a causa del lavoro del padre, la famiglia avesse cambiato ripetutamente città: Washington, Milwaukee e Minneapolis, ma questo non le sembrava necessariamente un male. Sin da allora era una fervente liberal e a New York ha trovato la città di adozione, dove cominciò a studiare all’American Academy of Dramatic Arts: non aveva soldi per mantenersi e non voleva chiederli alla famiglia: lavorò come maschera in un cinema, e una volta vide 38 volte di seguito L’Angelo Azzurro. «Marlene, insieme a Bette Davis è la mia attrice preferita. Ha il talento naturale delle grandi dive: quello di impadronirsi immediatamente di ogni scena cui partecipa».
Agli inizi degli anni ’50 era valorizzata dai registi soprattutto per la folgorante bellezza e debuttò a Broadway nel ruolo che interpretava Marilyn Monroe in Quando la moglie è in vacanza. Cominciò a lavorare presto con miti come Edward G.Robinson e Kirk Douglas, senza farsi mai intimidire: provava un senso di deferenza soltanto nei confronti di Bette Davis, «inimitabile e senza ombra di dubbio la più grande»: riuscì a lavorare con lei in un film televisivo del 1979, in cui interpretava sua figlia. È recitando in televisione che conobbe John, quasi per caso: in un primo momento aveva deciso di non accettare la proposta della serie western Laramie, ma poi decise di andare a fare un provino e lo incontrò: «Era con un amico e mi resi conto subito che mi stava fissando. Quando arrivò il mio turno, gli passai accanto e sentii che diceva all’amico: io sposerò quella donna. Non sapevo se ridere o offendermi, ma da allora siamo stati insieme sin quando non è morto». Si sposarono nel 1954, ma cominciarono a lavorare soltanto nove anni dopo, formando una delle coppie più affascinanti, carismatiche e indissolubili del mondo dello spettacolo. I film di Cassavetes risultano inconcepibili senza la sua presenza, e la sua maturazione di attrice deve enormemente al suo talento: rivedendo oggi film meravigliosi come Una moglie o La sera della prima, è impossibile capire se esiste qualcosa che appartenga unicamente all’ispirazione di uno di loro due, ed è evidente che il connubio esalta i rispettivi talenti. Quando citava il nome del marito, appariva negli occhi una luce diversa: era solo un attimo, ma diceva quanto fosse ancora grande il dolore per la scomparsa prematura per una cirrosi epatica dopo trentacinque anni di matrimonio. Mi raccontò di quanto fosse orgogliosa dei figli Nick, Zoe e Alexandra, che hanno scelto tutti la strada dei genitori. «Era inevitabile, non crede?» ma ebbi l’impressione che non ne fosse del tutto convinta. Tentai a quel punto di chiederle se era vero che avesse archiviato, e forse distrutto, la versione originale di Shadows, e lei si limitò a dirmi che l’eredità di un grande artista rappresentava un onore ma anche un onere.
«John mi chiamava Golden Girl», mi disse, senza che glielo avessi chiesto, «per i miei capelli». Esitò un attimo prima di dirmi che «era un perfezionista e chiedeva di ripetere la scena finché non era esattamente come la voleva lui: come regista lo adoravo, ma come marito mi veniva ogni volta voglia di litigare, anche perché non c’era alcuna differenza nel modo in cui trattava me rispetto a tutti gli altri attori. Il che ovviamente era giusto, ma mettiti nei miei panni...». Notai in quel momento una foto scattata sul set di Una moglie, e le dissi che la sua interpretazione del personaggio di Mabel Langhetti era una delle più grandi di tutti i tempi. Lei mi sorrise e mi disse: «Chissà se un giorno lo rivedrò John, chissà se esiste qualcosa, dopo. Io so solo che non ci si può lamentare di essere vivi, è da viziati essere tristi».