Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  marzo 21 Domenica calendario

Il cervello sociale dell’uomo soffre con il Covid

Il cervello degli esseri umani si "nutre" di contatti fisici. Senza di essi si spegnerebbe e morirebbe di "fame"». Per Claudio Mencacci, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano, la pandemia ci ha ricordato che l’essere umano ha un cervello sociale, programmato per interagire e toccare gli altri. Pochi giorni fa Mencacci ha partecipato alla cerimonia di premiazione del concorso «People In Mind 2020» di Lundbeck Italia, che ha come obiettivo quello di far uscire dall’isolamento chi soffre di disturbi mentali e che «brama» ancor di più il contatto con gli altri.
Professore, cosa succede agli esseri umani se viene impedito loro di entrare in contatto fisico con i suoi simili?
«Ce lo spiega chiaramente uno studio pubblicato di recente sulla rivista Nature Neuroscience. I ricercatori hanno coinvolto un gruppo di volontari rimasti a digiuno per dieci ore o deprivati di qualunque contatto umano, reale o virtuale, per altrettanto tempo. Ebbene, l’analisi del cervello con risonanza magnetica nucleare funzionale ha dimostrato che in entrambi i casi si attiva la substantia nigra, una piccola area cerebrale coinvolta nel desiderio di cibo e, quindi, anche di socialità».
Questo significa che la privazione di contatti fisici equivale alla privazione di cibo?
«Proprio così. Un cervello privato dei contatti umani soffre ed è inevitabilmente destinato a spegnersi».
Non si può sopravvivere alla solitudine?
«No se questa comporta la privazione di un qualsiasi contatto umano. La solitudine è letteralmente veleno per la nostra salute: sappiamo infatti che indebolisce il sistema immunitario, favorisce la comparsa di molte malattie e ci può portare verso la morte».
Perché abbiamo bisogno di toccarci con gli altri?
«Perché quello che abbiamo è un cervello sociale, che ha bisogno di contatti umani proprio come abbiamo necessità di cibo per vivere. Non si tratta di una semplice metafora. Non a caso lo studio pubblicato su Nature Neuroscience ha dimostrato che nel cervello di chi è costretto all’isolamento prolungato si accendono le stesse aree che vengono attivate dalla fame di cibo. Avere interazioni sociali è una necessità umana di base, come nutrirsi: quando è a "digiuno" del contatto con l’altro, il cervello soffre e lo desidera disperatamente».
Vale così per tutti gli esseri umani?
«In generale sì, anche se ognuno presenta un livello di resilienza diverso rispetto alla privazione di interazione con l’altro. Infatti, chi prima di ritrovarsi a lungo da solo aveva una vita piena di interazioni sociali soddisfacenti mostra una resilienza più bassa. In questa pandemia, almeno inizialmente, a essere maggiormente resilienti sono state le persone introverse, schive che già tendevano a isolarsi rispetto agli altri».
Il cervello degli introversi quindi può sopravvivere all’assenza di contatti fisici?
«No. Alla lunga no. Sicuramente resisterebbero di più, ma alla fine, introversi o meno, siamo tutti esseri umani e abbiamo bisogno degli altri per sopravvivere. È una necessità che ci accompagna dalla nascita e alla morte».
Già da neonati siamo «affamati» di contatti fisici?
«Certo. Pensiamo al brutale esperimento di Federico II: il sovrano decise di far nutrire regolarmente un gruppo di neonati in assoluto silenzio; i piccoli furono toccati quel minimo indispensabile alle cure igieniche al fine di eliminare completamente le loro possibilità di interazioni con le nutrici; alla fine l’assenza di contatto fisico e verbale li condusse fatalmente alla morte. Può sembrare inquietante, ma il bisogno del contatto con l’altro è vitale. È qualcosa di ancestrale».
In che senso?
«Il contatto fisico è un comportamento adattivo: senza contatti fisici non ci sarebbe accoppiamento e di conseguenza l’uomo si estinguerebbe. Ma non è solo questo. Il contatto fisico scatena nel nostro cervello una sorta di tempesta endorfinica che ci fa stare bene. Pensiamo al lutto e al bisogno di essere abbracciati e toccati: il contatto fisica alimenta la produzione di dopamina che, in questo caso, è come un balsamo per le nostre sofferenze».
Però il progresso ci sta spingendo verso la direzione opposta: meno fisicità e più virtualità. Quali potrebbero essere le conseguenze per il nostro cervello sociale?
«Certamente ci stiamo abituando a "nutrirci" di interazioni sociali virtuali. Questo probabilmente renderà le nuove generazioni più resilienti all’assenza di fisicità. Ma più resistente non significa totalmente immuni. L’essere umano avrà sempre bisogno di toccare ed essere toccato».