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 2021  marzo 21 Domenica calendario

L’assassinio di Mario Francese, il 26 gennaio 1979

Mario Francese, cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, fu ucciso sotto casa sua, a Palermo, la sera del 26 gennaio del 1979. A sparargli una scarica di colpi di calibro 38 fu Leoluca Bagarella, killer collaudatissimo e cognato di Totò Riina, capo della mafia corleonese. Era quasi l’ora di cena e Giulio, il giovanissimo figlio maggiore di Mario, apprendista cronista al Diario (un quotidiano appena fondato in città) si apprestava a rincasare. Quando vide la folla di curiosi sotto casa sua pensò che stava per imbattersi in una notizia da dare al suo giornale, magari anticipando per una volta il padre. Non ebbe il tempo di avvicinarsi ancora verso quel corpo senza vita perché fu fermato dal vicequestore Boris Giuliano, che lo prese in disparte e, con tutte le cautele di cui disponeva, gli disse che quell’uomo immobile e pieno di sangue era suo padre.
La Palermo del 1979 non era ancora quella delle stragi, ma lasciava presagire come si sarebbe arrivati alla grande mattanza che per 15 anni avrebbe sconvolto la città e la Sicilia intera. Nel 1977 era stato ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, nel 1979, dopo Francese, sarebbe toccato al segretario della Democrazia cristiana, Michele Reina e al vicequestore Giuliano che abbiamo già incontrato. E poi, a cascata, Piersanti Mattarella, Dalla Chiesa, Chinnici, Terranova, Basile, D’Aleo, Zucchetto, Cassarà, Montana, Giaccone e tutti quelli che ogni anno, come adesso, vengono ricordati durante la giornata della memoria delle vittime delle mafie. È talmente lungo, questo elenco, che per leggerlo ci vorrebbero ore.
Ma la storia di Mario Francese non è la semplice storia di una delle vittime della violenza. Appare un tantino più complessa per le implicazioni affettive e familiari (il suicidio del figlio, Giuseppe) e per le implicazioni di natura sociale e politica che ne caratterizzano lo svolgimento. Il giornalista, infatti, si occupava, denunciandone lo scandalo, di uno dei più grossi affari della mafia siciliana degli Anni 70: il giro miliardario di soldi attorno alla costruzione della Diga di Garcia e quindi la corsa mafiosa all’accaparramento dei terreni che sarebbero poi stati espropriati a suon di milioni per far posto all’opera pubblica. Senza contare il grande business degli appalti: gli sbancamenti, il movimento terra, i trasporti, la fornitura dei materiali e la costruzione di un invaso che avrebbe dato acqua a tre province.
Francese scriveva senza cautele, andava in giro a fare domande e qualche volta arrivava prima dei carabinieri. E scriveva della mafia corleonese che all’epoca era ancora un oggetto misterioso. Per primo scrisse il nome di Totò Riina, indicandolo come l’erede di Luciano Liggio, per primo rivelò il nome di una grande impresa (la Ri. Sa.) di proprietà di don Totò. E mentre molti «distratti» fingevano di non sapere cosa volesse significare Ri. Sa., Mario scriveva che quelle erano le iniziali di un nome e cognome: Riina Salvatore. E scriveva anche dopo l’assassinio del col. Russo, una delle sue fonti privilegiate. Un racconto, questo, che abbiamo potuto ascoltare guardando il documentario di Peter Freeman trasmesso per «La Grande Storia» di Raitre.
Ovviamente, questo intreccio non si sarebbe potuto sviluppare senza il fondamentale contributo di una politica collusa (era il bel tempo del quieto vivere di Lima e Ciancimino), di un’imprenditoria compromessa come quella dei cugini, democristiani e mafiosi, Ignazio e Nino Salvo. Un clima che non lasciava spazio neppure alle imprese del Nord, costrette a patti scellerati e non poteva tollerare spazi di libertà. Forse per questo Mario Francese, che era originario di Siracusa e poco avvezzo alle cautele palermitane, non trovò piena rispondenza neppure presso il giornale per cui lavorava, anche dopo messaggi inequivocabili come l’incendio dell’auto del direttore di allora, Lino Rizzi, e l’attentato alla casa di villeggiatura del capocronista, Lucio Galluzzo, che - in assenza di solidarietà - deciderà di lasciare il giornale.
Ma la tragedia del «giornalista che scriveva troppo», come abbiamo detto prima, ha avuto anche terribili danni collaterali. Privato del padre, violentato nel profondo dell’anima e della mente, il figlio piccolo, Giuseppe, dedicò la sua giovane vita a cercare di «capire» e quando capì non resse all’urto di una realtà inaccettabile. Si uccise il 3 settembre del 2002. Gli è stato riconosciuto lo status di giornalista per le produttive ricerche sulla morte di suo padre. Un nome che va ad aggiungersi agli otto giornalisti siciliani uccisi dalla mafia: Mauro Rostagno, Beppe Alfano, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Giovanni Spampinato e Peppino Impastato.