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 2021  marzo 21 Domenica calendario

Rodica Popa ricorda Gianni Mura

«La più bella intervista della mia vita». Così la giudicò Gianni Mura che la voleva addirittura scrivere in due puntate. Esordio di una serie suRepubblica che si chiamava «L’altro Straniero». Uscì il 10 gennaio 1991. Datata Sassari. Un lungo monologo. Rodica Popa, il soggetto. Grandissima pallavolista rumena che allora aveva 41 anni e che all’europeo di Reggio Emilia nel ’71 aveva deciso di voltare le spalle al suo Paese e di restare in Italia. Rodica oggi ha 71 anni, vive a Fano, si occupa «da giardiniera tenace» di un resort turistico sulle colline. Sarebbe piaciuta a Gianni anche adesso, soprattutto perché ha una motosega in mano, e come scrisse lui «ha quella bellezza un po’ da donna del West». Tra gli alberi in sottofondo sembra di sentire la tromba di Fresu, anche se non c’è.
Rodica, come fu il primo incontro?
«Chiamò al telefono e a me che ero sua lettrice e che assorbivo i suoi articoli sembrò un miracolo. Chiese un’intervista, dissi sì, io giocavo in B, gli diedi l’indirizzo di casa, si presentò. L’emozione più grande della mia vita extra-sportiva. Il mito che bussa alla tua porta. Uscimmo a camminare per Sassari, mi portò in cantine ed enoteche, mi spiegò i vini. Intanto parlavamo, era curioso, voleva capire».
Cosa?
«La mia esistenza di campionessa ribelle, di fuggitiva, di ragazza ingenua, ero un libro bianco che lui poteva riempire, un personaggio sportivo che lo stuzzicava.
Sembrava semplice, invece era sofisticato. Mi piaceva come andava dritto ai problemi».
«È come se Maradona tra dieci anni giocasse nel Mantova».
«Sì. Iniziò il suo pezzo così. Ma scrisse anche che avevo il vino in tetrapak, cosa per lui insopportabile. A quel primo incontro seguirono altre volte. Mi offriva pranzi in ristoranti che non potevo permettermi. Mi ha insegnato a bere e a mangiare. Chi lo sapeva che ogni piatto vuole il suo vino? Certo poi dovevo trovare scuse per saltare l’allenamento. Ve lo immaginate: correre, saltare, schiacciare dopo un pasto con Mura? Era la mia trasgressione preferita».
Lei aveva tutto per piacere a Mura.
«Miglior giocatrice europea nel ’69, transfuga nel ’71 a 21 anni. Sono fuggita quando non fuggiva nessuno. Molto prima di Nadia Comaneci. Cercavo la libertà, già da piccola, non mi andava di essere controllata. E soprattutto non sopportavo la noia di una vita dove tutto era programmato e non c’era mai un imprevisto. Ho fatto finta di andare in farmacia e mi sono allontanata, senza niente. Né una borsa né un documento. In Romania mi hanno condannata a sei anni per alto tradimento. E io sono finita in un campo profughi a Trieste, ma ero felice».
I viaggi in autostop.
«Era un’Italia bellissima, nonostante gli anni di piombo. A Firenze ho scoperto i locali, respiravo libertà. In politica ero ignorante, molto ragazzina, la mia cultura me la sono fatta con Repubblica, adoravo il formato tabloid, e così ho imparato a conoscere Bocca, Pansa, Zucconi».
La passione per la musica.
«Mettere le monete nel jukebox per me era un sogno. Mura mi faceva sentire Brel, Ferrè, quelli che piacevano a lui. Tutti tristi, forse troppo. Io mi accontentavo dei Pooh e di Morandi. Avevo anche la passione per le moto, mi sono fatta regalare da un amico un Ducati 250 Scrambler, anche se avevo giurato ai dirigenti che sulle due ruote mai, invece sempre, e sono pure caduta e ho dovuto saltare la partita».
L’insofferenza alla disciplina.
«Quella mi veniva naturale, anche perchè dai 12 a 21 anni non avevo mai fatto un giorno di vacanza, solo allenamenti. Lo sport per me è stato un mezzo, avrei voluto avere altri strumenti culturali per capire il mio istinto e cosa mi commuove nella musica classica. Mi piaceva Platini, per l’eleganza e la strafottenza, ma ho anche molto amato Maradona per tutto quello che era».
Lei andò a giocare a Bari.
«E fui vittima di un pregiudizio: stai attenta, non uscire, posto pericoloso. Per i primi cinque anni sono rimasta tappata dentro. Mi ha trascinata fuori il Bolero di Béjart e da lì ho scoperto una città fantastica. Ma la delinquenza minorile c’era: mi hanno scippata Mary, la cagnolina, per riaverla ho dovuto pagare mezzo milione di lire. Per questo giravo in bici con una mazza da hockey con la scritta difensore d’ufficio».
Con Mura era nata un’amicizia.
«C’era feeling. A Matera con lui ho fatto il giro dei ristoranti, ma mi anche insegnato a capire il ciclismo e con lui ho condiviso l’interesse per i gialli e per il mondo letterario del crimine. Devo a lui l’apprendimento di tante cose, il guardare alle radici, a quello che c’è dietro le persone.
Sono andata a trovarlo a Milano, a casa sua, ho conosciuto Paola, la moglie. Oggi se qualcuno mi chiede del volley di Conegliano, dico che la squadra è troppo forte, ma anche che quella terra è fantastica per il prosecco, che Gianni mi ha fatto conoscere. Poi ci siamo persi di vista, è rimasto un amico lontano, quando ho saputo della sua morte ho avuto uno shock fisico».
Nell’intervista le chiese se era felice.
«Risposi che bisogna accontentarsi.
Non rassegnarsi, ma adattarsi, e lasciar perdere qualche sogno. Se sono stata brava nello sport è perché sapevo fronteggiare gli imprevisti. Ho un cattivo rapporto con il tempo, mi mette in crisi l’istante bellissimo che non c’è più.
Non ho vecchie foto, né le voglio di adesso, del passato non ho tenuto niente, né trofei, né medaglie. Ho salvato solo una cosa: l’articolo di Mura. Dentro c’era tutto quello ero io e tutto quello che era lui. Ma senza la fine».