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 2021  marzo 21 Domenica calendario

Intervista al costumista Cantini Parrini

L’eccellenza italiana nel mondo ha l’umiltà, il talento e lo sguardo profondo di Massimo Cantini Parrini, 50 anni, fiorentino, candidato all’Oscar per i costumi del Pinocchio di Matteo Garrone. Lunga gavetta alle spalle, tanti premi e maestri illustri come Piero Tosi e Gabriella Pescucci. «Non ho seguito l’annuncio in diretta, non ci speravo. Ero a pranzo e sul cellulare sono esplosi fiori, cuori, congratulazioni».
A chi l’ha detto per primo?
«A mia madre. È stata in silenzio per un po’. "Mi prendi in giro?" Sono cose grandi per noi».
Suo padre?
«I miei sono divorziati. Non ci sono rapporti».
L’idea alla base dei costumi di Pinocchio?
«Ho cercato la verità, volevo che chiunque vedesse il film si sentisse parte di quel mondo. Non cercavo l’eccesso, far sì che tutto fosse protagonista. Ho voluto che i costumi fossero giusti per quel che si rappresentava. Non credo al bello o al brutto, piuttosto a ciò che è giusto o sbagliato. Ho spinto in questa direzione. Sono costumi che restano addosso ai personaggi per tutto lo spettacolo, non volevo annoiare lo spettatore ma, anzi, far trasparire anche una certa tenerezza. Il colore scelto per Pinocchio è il colore dell’amore, della follia, della discordia, amore e odio insieme».
È anche diventato membro dell’Academy.
«Sì, ho votato per la prima volta».
Sua nonna le ha trasmesso la passione.
«C’era un legame molto forte. È nato tutto in quei pomeriggi passati da lei nella sartoria in cui lavorava. L’abito per me è un’espressione forte dell’essere umano e anche del mondo che rappresenta, parla di pittura e architettura. Oggi non si rincorre il giubbotto alla moda ma l’ultimo telefonino, la moda non è uno status symbol. Siamo fatti tutti di vintage, peschiamo nell’armadio di famiglia, ci vestiamo più o meno come vent’anni fa mentre tra gli anni 50 e i 70 la differenza è abissale».
Il primo vestito che ha amato?
«L’abito da sposa di mia nonna. Aprì l’armadio e mi mostrò quest’abito di raso in seta anni 50. Da piccolo ho passato pomeriggi interi a guardarlo».
Lei è anche un collezionista.
«Ho iniziato quando, adolescente, mamma mi ha portato alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti. In quel museo meraviglioso ho scoperto che si potevano possedere abiti antichi e ho iniziato una collezione d’epoca che oggi ha oltre quattromila costumi".
Il primo che ha comprato?
«In un viaggio a Parigi con mia madre. Oggi mi fa tenerezza perché non ha alcun valore storico, ma quando lo comprai mi sembrava di possedere l’abito di una regina».
Il pezzo più importante?
«Il più antico, del 1630. Un vestito azzurro-Madonna che comprai per intuitoin un mercatino a Firenze. Ho scoperto che era un abito di corte, alto collezionismo».
Il cinema come è arrivato?
«Volevo fare lo storico del costume, poi ho scoperto il Centro sperimentale, ho incontrato Piero Tosi, il mio maestro. Mi ha insegnato a stare con i piedi per terra, ad avere pazienza e tenacia. La parola che ripeteva di più è resistere, difendere la propria visione. Non era un insegnante classico, trasmetteva il sapere con i suoi meravigliosi racconti. Era il modo per continuare a fare un lavoro che amava. L’ho visto felice quando ho vinto il David. Vorrei che fosse qui oggi».
Con il premio Oscar Gabriella Pescucci avete condiviso tanti set.
Il più difficile?
« La fabbrica del cioccolato di Tim Burton: gli unici due italiani su un set gigantesco, ci siamo dati una forza enorme. Con Gabriella, ex allivea di Tosi, c’èun rapporto speciale, l’ho affiancata per dieci anni, dopo i tre alla sartoria Tirelli».
Lavora con Garrone, i fratelli D’Innocenzo, Edoardo De Angelis.
«La stima che hanno per me mi fa sentire vivo, sono felice quando mi richiamano. Sono mondi diversi.
Matteo ha una cultura visiva enorme, viene dalla pittura, colore e semplicità hanno una valenza forte.
Edoardo è napoletano, un mondo più solare. I fratelli D’Innocenzo sono legati alla contemporaneità, è come affrontare un tema futurista».
Ha appena finito di girare "Cyrano" di Joe Wright.
«Ho adorato Espiazione e L’ora più buia . Abbiamo finito a dicembre, il primo grande lavoro internazionale. Non mi piace parlare di modernità: ho fatto un lavoro storico sul Settecento ma ho cercato una chiave più contemporanea abolendo fiori e righe e usando i colori. Ho lavorato in totale libertà».