la Repubblica, 21 marzo 2021
Insultare stanca
Dopo avere definito “troie” due colleghe di partito passate a Fratelli d’Italia, un eminente leghista del Trentino, il cui nome non merita eco, ha passato il resto della giornata a scusarsi e poi a dimettersi. Essendo le sue scuse molto compite, e a loro modo elaborate, si immagina che debbano essergli costate uno sforzo lessicale insolito. Ci si domanda se la prassi ormai quotidiana dell’insulto con le scuse comprese nel prezzo, oltre che ridicola, non sia contraria ai principi (molto in voga) della sostenibilità. Parte l’offesa, in genere un bisillabo, al massimo un trisillabo. Lo sbrego di un secondo. Poiché l’insulto definisce, sempre, chi lo pronuncia, forse basterebbe il vecchio adagio in uso nei cortili e nelle ore di ricreazione della mia infanzia («chi lo dice lo è cento volte più di me») per liquidare il caso. Male che vada, una bella querela e ci si rivede – tra una trentina d’anni, massimo – davanti al giudice. Ma no. Si organizzano dibattiti. Si mobilitano tribunali morali. Si investono energie politiche e culturali rilevanti per stabilire il grado di sessismo dell’insulto, e in effetti “troia” non fa pensare all’opera di Simone De Beauvoir, ma ai peggiori bar di Caracas, nonché del Trentino, specie dopo il terzo bicchiere. Infine ci si duole e si fa autodafé, nel rispetto della tradizione cattolica che alla fin fine è quella che comprende in un unico e risolutivo abbraccio chi è offeso e chi offende. Domanda: considerato il trambusto successivo, e lo scialo di contrizione, di ipocrisia, di pentimento, non sarebbe meglio evitare di dire “troie” (e simili) già in partenza, risparmiando tempo e fatica?