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 2021  marzo 20 Sabato calendario

Sul monumentale epistolario di Truman Capote

Due brevi missive aprono e chiudono È durata poco la bellezza, monumentale epistolario di Truman Capote, autore culto di Colazione da Tiffany e A sangue freddo che forse non avrebbe voluto dare in pasto la sua parte più intima al resto del mondo, ma tant’è. La prima, datata ’36, quando dodicenne scrisse al padre biologico scomparso dal suo radar quando aveva sette anni, chiedendogli di chiamarlo, da quel momento in poi, col cognome di quello adottivo, Capote appunto, per rivendicare se stesso agli occhi del genitore fantasma; l’ultima, in forma di telegramma da New York verso Verbier, dove Jack Dunphy era solito svernare.
Conosciuto nel ’48, a casa dell’amico Leo Lerman, caporedattore di Mademoiselle e Vogue, Dunphy fu l’amore di una vita, stella polare che mai lo abbandonò, neanche negli ultimi anni di dissoluzione e depressione dopo lo stratosferico successo nel ’66 di A sangue freddo, romanzo-reportage sul quadruplice omicidio di una famiglia del Kansas che lo impegnò per un lustro, succhiandogli via il midollo e tenendolo sulle spine fino all’esecuzione dei colpevoli, e che fu contemporaneamente apice e inizio di una parabola discendente. Per celebrarlo organizzò un party esclusivo con 500 invitati al Plaza Hotel di New York, ma quando le luci si spensero qualcosa cominciò a oscurarsi dentro di lui. Trascorse gli ultimi anni in solitudine, infatti la corrispondenza si dirada e si fa scarna, svuotata, alcolizzato e tossicomane, ripudiato dal jet-set che lo aveva accolto e si era visto tradito dal più ambizioso dei suoi progetti, Preghiere esaudite, in cui racconta vizi e debolezze dei diamanti di Manhattan. Avrebbe voluto fosse la sua Recherche ma restò incompiuta e fu la sua rovina.
Curato da Gerald Clarke, che ne scrisse la biografia nell’88, l’epistolario restituisce un Capote autentico, sensibile, capace di ironia, acuto, brillante, goloso di pettegolezzi. Prima del periodo nero è palese quanto scrivere lettere e riceverne in ritorno fosse gioia assoluta. Agli amati amici – scrittori, editor, fotografi – riservava nomignoli come “pasticcino, angelo, fanciullo mio diletto, dolce magnolia” e commiati zuccherosi come quando a Lerman mandò tanti baci quanti potevano essere i ritagli di una coperta patchwork.
Sfila la giovinezza, dalla prima esperienza come tuttofare al New Yorker sino al debutto su Harper’s Bazaar e Mademoiselle e all’esordio in narrativa con Altre voci, altre stanze, quelle in Europa con Dunphy tra Francia, Italia, Marocco e Spagna e con l’amica d’infanzia Harper Lee, per raccogliere i dettagli per A sangue freddo. A Perry Smith, uno dei due assassini, scrisse sovente confidandogli dettagli sulla sua infanzia infelice, definendosi un uomo da sempre artisticamente precoce ma emotivamente immaturo, provato dal suicidio della madre e dall’omosessualità che definisce “quella questione”. In qualche modo sentiva Perry affine. Le ultime cento pagine sono stanche. Quando nel ’79 manda una foto di lui a Miami che si lancia da un trampolino per rassicurare Dunphy di essere in forma, mentre probabilmente non lo era, vien da pensare che genialità e successo non siano stati per lui passaporto per la felicità.
(È durata poco la bellezza. Tutte le lettere Truman Capote. Pagine: 608. Prezzo: 28 euro. Editore: Garzanti)