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 2021  marzo 20 Sabato calendario

Biografia di Sabina Guzzanti raccontata da lei stessa

Forse non è il modo migliore per cominciare una conversazione con Sabina Guzzanti, vista la giornata fredda, scandita da una pioggia fastidiosa. Lei ha appena esordito con un romanzo di fantascienza – 2119, La disfatta dei sapiens (edito da Harper Collins) – e io penso, mentre sediamo infreddoliti in un bar, che la storia che stiamo vivendo ha più risvolti sadici di quelli che si trovano nel romanzo, a tratti distopico e a tratti speranzoso, perché in mezzo a un mondo dominato dalle macchine un esiguo gruppo di umani resiste e combatte per riconquistare la libertà.
Parola fatale quest’ultima che può stregare, illudere o esaltare chi ne avverta l’assenza o la difenda. Questa donna che siede davanti a una tazza di caffè americano mi appare complicata e autentica, sospettosa e disponibile, come se la vita possa offrire una doppia entrata emotiva, un duplice modo di essere: fragili e determinati.
Come ti è venuto in mente di scrivere un libro di fantascienza?
«È un genere che ho sempre amato. Mi affascinava il mondo raccontato da "Urania", e poi c’è la mia predilezione per Asimov, preferito a Philip Dick».
Perché?
«Meno complicato. Bellissima la "Trilogia della Fondazione". Asimov ritiene ancora possibile l’alleanza tra l’uomo e la macchina, come suggeriscono le sue leggi della robotica. Dick scrive nell’idea che la storia sia finita. Tutto quello che ci racconta esce da una mente ossessiva. Il suo bisogno di scrivere gli viene dalla necessità di dare corpo alle sue allucinazioni».
La tua spinta a scrivere da dove arriva?
«È un esordio, quindi non so cosa accadrà dopo. Ho scritto per reazione ai mesi di segregazione in casa, ma anche perché oggi ci troviamo a fare i conti con una identità digitale, completamente sconosciuta in passato. Voglio dire che stiamo assistendo a una specie di mutazione antropologica di cui non conosciamo gli effetti. Siamo già uno spunto per la fantascienza».
Guardi al futuro e provi a reinventarlo. Ma qual è il tuo rapporto con il passato?
«Penso che il senso della vita sia evolversi. Il passato è più un enigma da sciogliere».
Cosa vuoi dire?
«Cerco di mettermi alla prova con quello che non ha funzionato. È facile cullarsi nei dolci ricordi. Più difficile è misurarsi con ciò che ti ha fatto male».
È curioso il rapporto problematico che hai con le cose trascorse.
«Perché?».
Forse perché di mestiere fai l’attrice.
«A parte che non mi sento un’attrice. Ma poi cosa dovrebbe avere un’attrice in più per sentirsi autorizzata a parlare del passato? Oltretutto non amo le cose svanite, i desideri che ho lasciato cadere, le occasioni mancate. Le mie parole dovrebbero obbedire a una semplice domanda: chi parla in me, quando io parlo? ».
Perché non ti ritieni attrice?
«Ho fatto seriamente l’attrice a teatro una sola volta in vita mia, interpretando un ruolo e un testo».
E tu cosa fai di solito?
«Sono sempre stata un’autrice, che elabora i propri testi, dove la scrittura è fondamentale».
Non capisco la differenza, stai su un palco e reciti. Poi
che sia un testo scritto da te o da altri cosa cambia?
«Cambia il rapporto con il corpo, con la maschera che indossi, con il tempo interiore. Un’attrice non appartiene a sé, è parte di qualcos’altro. Se vuoi è un mio problema di come sentirmi libera».
Però hai fatto l’Accademia.
«Ma sì, se è per questo ho fatto teatro fin da bambina.
Frequentavo le scuole sperimentali, tipo Montessori. Lì il teatro era pedagogico».
Parlami del periodo in Accademia
«Che devo dirti? Avevo vent’anni. Effettivamente pensavo di fare l’attrice. Poi è andata in modo diverso».
Sei laconica, fornisci qualche dettaglio.
«Ho fatto l’Accademia a Roma e ho avuto un paio di punti di riferimento. Uno fu Luca Ronconi, l’altro Aldo Trionfo, almeno fino a quando non subì un’involuzione. Ci fece scoprire Carmelo Bene, amare Jean Genet.
Sapeva come muoversi nel linguaggio delle avanguardie, poi come direttore dell’Accademia fu deludente».
Quanto a Ronconi?
«Veniva dalla stessa Accademia, dove si era formato negli anni Cinquanta. Negli anni in cui c’ero io seguiva i saggi di recitazione di alcuni allievi. Lo ricordo molto spiritoso. Poteva prendere la frase di un testo teatrale e ricamarci all’infinito. Poteva parlarti di una cosa precisa, che so, il colore di un fiore o di una stoffa, e darti contemporaneamente l’idea dell’ampiezza che c’era dietro a ogni parola pronunciata. Ero affascinata ma al tempo stesso mi sentivo totalmente inadeguata».
Perché inadeguata?
«La sensazione era di grande incertezza sulla strada da intraprendere. Oltretutto, ci fu una specie di cortocircuito durante il saggio finale. Ci avevano affibbiato, credo su istigazione di Trionfo, dei monologhi secenteschi, roba difficile scritta in lingua barocca. Andai in scena per ultima».
Che accadde?
«Dovevo interpretare una condannata a morte. Puoi immaginarti a vent’anni con che spirito. Vabbè, entro in scena e subito dal pubblico parte un urlo: "nuda!". In quel momento mi girarono talmente le scatole che sarei scesa dal palco e avrei preso quel tizio a capocciate. Ora perché ti racconto questo episodio non lo so. Ma so che contribuì al mio malumore generale».
Insomma sei rimasta nel teatro sospesa a metà strada.
«Ci sono stati, in quel periodo, momenti in cui recitare mi dava un’energia che non avrei mai creduto di avere.
Come passare da uno stato di coscienza a un altro. In quei rari attimi le parole uscivano libere e senza sforzo, e sentivo il corpo leggero, muoversi come in assenza di gravità».
Uno stato di allucinazione?
«Beh, preferirei definirlo "mistico", se non fosse una parola troppo impegnativa. Gli sciamani, per quel poco che ne so, hanno questa potenza metamorfica, per cui diventano orso, uccello, giaguaro. Imitano certi animali per ingraziarsi la natura e proteggere la comunità».
Sono a volte terribilmente comici.
«Non ci avevo mai pensato. Ma effettivamente hanno la diversità del comico».
Tu in che senso ti ritieni una comica?
«Ho cercato di esserlo, fuori dalla prevedibilità del genere. Il comico, per come l’ho vissuto, scardina i pregiudizi e pone le cose, anche più ovvie, sotto una luce sorprendente. La risata è la felicità che si prova ogni volta che uno schema si rompe e una piccola prigione si apre. Per me è stato un modo per sentirmi libera».
Ne parli al passato.
«Quella comicità appartiene a una stagione lontana della mia vita».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Ci sono dei comici che ti piacciono?
«Sono cresciuta con Benigni, Troisi, Verdone».
Proprio Verdone raccontava recentemente dei suoi esordi televisivi con Enzo Trapani.
«Anch’io ho esordito con lui. L’ho conosciuto solo pochi mesi prima che si sparasse. Girava sempre con una specie di pistolone. Si disse che il suicidio fosse legato all’abbandono da parte di una donna che era stata importante per lui. Era bizzarro, con dei grandi occhi alla ET. Forse gli servivano per scovare i talenti. Sapeva fare televisione, cosa che oggi non si sa più fare. Ma ti confesso che il programma che feci con lui fu fallimentare».
Ci rimanesti male?
«No, ma restai delusa dal mio battesimo con la censura.
Ero vestita da suora e stavo per entrare in scena, quando un funzionario mi bloccò, dicendo che non potevo andare in onda così conciata. Punto e a casa».
La televisione ha esaltato le tue qualità satiriche, ma ti ha anche messo da parte.
«Ho sofferto per un ingiusto ostracismo, frutto di conformismo e pavidità. Ma alla fine non fare televisione è stata anche una salvezza, ho avuto il tempo per dedicarmi ad altre cose, ai documentari e alla scrittura».
Quindi non definendoti attrice, ti definiresti regista e scrittrice?
«Mi definisco per quello che sono. Ho sempre fatto non solo quello che ritenevo razionalmente giusto, ma anche ciò che sentivo emotivamente più coinvolgente.
Temerei sapere di trovarmi in un punto della mia vita, pensando di aver tentato qualcosa per cui non ero nata».
Credi nelle forme del destino.
«Credo che ognuno porti dentro di sé una propria visione da realizzare. Poi gli può andare bene o no».
C’è stata la fase in cui facevi le imitazioni.
«Ho cominciato senza nessuna attenzione speciale. La prima volta in televisione feci Rita Levi Montalcini e scoprii di saperlo fare. C’è una tecnica di ricalco da imparare. Fotografi mentalmente il personaggio, ne accentui alcuni dettagli e poi cerchi di restituirlo in una luce comica».
So che in famiglia ogni tanto provavate a imitare vari personaggi.
«Ma no, è una leggenda. In realtà io e Corrado, soprattutto, ascoltavamo Alto gradimento e papà ogni tanto giocava a imitare alcune figure del programma.
Poi poteva accadere, quando andavamo tutti insieme in vacanza, che per passare il tempo in macchina ci facesse ridere con le sue imitazioni. Ma io fino all’età di trent’anni non ho fatto imitazioni».
Forse è stato un modo per far tornare la figura paterna.
«Tu dici? Però tra i ricordi della mia infanzia le imitazioni non sono state così centrali. Comunque non ho una risposta e se l’avessi la rifiuterei. Se davvero siamo spinti a ripetere il comportamento dei nostri padri e delle madri, non ne sarei contenta. Sarebbe ancora una volta un limite alla propria libertà».
Non è curioso che sia tu che Corrado, ma anche Caterina, abbiate scelto il genere comico?
«Visto dall’esterno è singolare, ma ognuno lo ha fatto a modo suo. E con le proprie motivazioni».
Dai l’impressione, a volte, di essere molto dura, anche nelle risposte.
«Quella che tu chiami durezza è un bisogno di coerenza e di verifica che le mie azioni corrispondano alle idee che difendo o condivido. Ma poi nella vita privata sono molto mite. La timidezza può fare degli scherzi».
Sei certamente una persona di talento, non lo hai condizionato con un eccesso di ideologia?
«Ideologia? Ma io vivo in un mare di dubbi».
Che difetti ti riconosci?
«Di essere troppo giudicante sia verso me stessa che nei riguardi degli altri. Il giudizio a volte impedisce di capire, soprattutto se diventa un pregiudizio. Me ne vorrei liberare, ci sto lavorando».
Sei buddista.
«Lo sono stata per anni e ha rappresentato un modo di conoscermi meglio. Non pratico più».
Perché?
«Ha smesso di parlarmi».
La sinistra ti "parla" ancora?
«La sinistra che vedo sfugge a qualsiasi definizione.
Forse non è più in grado di fare un racconto che mi piaccia e mi convinca. Dovrebbe esplorare nuove strade, anche sbagliando. Ma tutto finisce con qualche esternazione televisiva. Se poi alzi il ditino e provi a dire e a reagire ti rispondono, come tutti del resto, che l’unica cosa che conta è il sondaggio. Siamo sopraffatti dalla statistica, e dagli algoritmi».
E allora?
«Io non sono in grado di dare risposte né lievi né profonde. Posso soltanto continuare a farmi domande. L’intuito mi dice che siamo sulla soglia di un salto di specie. Come accade per i virus. E ho provato a raccontarlo con il romanzo 2119 ».
Parli dell’estinzione del Sapiens.
«È un animale troppo arrogante per rendersi conto che la sua azione sul pianeta sarà catastrofica. Quando non ci sarà più lui, come lo abbiamo conosciuto, avanzerà il deserto e dopo il deserto le macchine e quel che resterà dell’umano. La fantascienza è un gioco letterario fondato sulla previsione. Quello che potrà accadere domani è già scritto nel nostro oggi».