la Repubblica, 20 marzo 2021
Silvano Agosti chiude il cinema romano Azzurro Scipioni
«E adesso, Silvano?», chiede la signora, che si affaccia nel corridoio con aria dispiaciuta. «Ci faranno un supermercato». L’Azzurro Scipioni, dal 1983 il cinema d’essai più famoso di Roma, nel rione Prati, chiude ucciso dal Covid. Il suo fondatore, il regista e montatore Silvano Agosti, 83 anni, ha messo questo annuncio su Facebook: «Svendo con urgenza 90 belle poltroncine per sala cinema o teatro». È come se vendessero i seggiolini di San Siro. È difficile intervistarlo, perché parla per ruvidi paradossi, e perché la chiacchierata è interrotta dal pellegrinaggio incessante di vecchi cinefili venuti a portargli solidarietà, ma ne vale la pena. Un informatico è giunto appositamente dall’Eur: «Qui dal 1985 al 1987 ho visto un film al giorno. Silvano, non può essere vero!».
Agosti, che farà?
«Al momento ho raccolto duemila "ma che davvero?", quattrocento "peccato", e duecento "com’è possibile?"».
A quanto vende le poltrone?
«Cinquanta euro l’una, le avevo pagate 200, si è fatta avanti una scuola».
Perché ha chiuso?
«Non l’ho deciso io. È lo Stato che mi ha chiuso. All’inizio della pandemia avevo messo un mazzetto di fiori ogni tre posti per indicare le poltrone da occupare.
Mi pareva una distanza ragionevole».
C’è la pandemia.
«Sì, ma lo Stato non ha alcun rapporto col popolo, infatti nessun italiano si fida».
Non è quindi riuscito a pagare l’affitto?
«Bisogna pagarlo anche a cinema
chiuso, faccia un po’ lei».
Delle istituzioni chi si è fatto vivo?
«L’assessore Luca Bergamo si spese molto, ad un certo punto mi disse che il Comune avrebbe pensato all’affitto, evviva!, poi l’hanno fatto fuori, e non ne ho più saputo nulla».
Come definirebbe l’Azzurro Scipioni?
«Un cinema che non mentiva. Ho sempre e solo trasmesso i capolavori che nessuno voleva. E la gente usciva beata, perché qui trovava la vita. ( Il signore dell’Eur annuisce: «È vero, è proprio così»)
Ci veniva Moravia?
«Non solo lui, anche Fellini, Antonioni, Bertolucci, Bellocchio.
Gigi Proietti è stato molto amico mio».
Quanti film e documentari ha girato?
«Ventotto. A 17 anni sono scappato a Londra. Ho spalato anche la neve per vivere. Londra era luminosa e accogliente, sono finito a fare il barista al John Dory di King’s Road e ho servito Agatha Christie».
Lei ha lavorato con Bellocchio a "I Pugni in tasca".
«Lavorato? Sono stato l’anima di quel film».
Perché 28 minuti del suo film, "Il Giardino delle delizie", vennero censurati nel 1967?
«Perché il matrimonio è il sacro rifugio della recita affettiva in Italia».
Che Italia era?
«La donna si sposava perché senza lavoro otteneva un appartamento, da mangiare, un paio di ciabatte.
Per fortuna oggi non è più così».
È vero che lei teorizza che bisogna lavorare tre ore al giorno?
«Un’ora sarebbe ancora meglio».
E per il resto?
«Vivere, fare l’amore, stare con gli
amici ( La signora che si è affacciata prima, ride).
La condizione della donna è cambiata grazie al ’68?
«Ho trascorso dieci anni con la telecamera nei cortei. Una volta un autonomo me la voleva togliere. In sei gli saltarono addosso: "Non vedi che è Silvano?"».
Com’è stato realizzare il documentario su Alekos Panagulis, il protagonista di "Un uomo" di Oriana Fallaci?
«Rischiai la vita tre volte. Lo raggiunsi, per dirne una, nel portabagagli di un taxi».
Ha conosciuto la Fallaci?
«In quell’occasione. Non l’avevo riconosciuta. "Sei italiana?" le chiesi. E lei: "Mi dia del lei!"».
Cosa ricorda del film sulla morte di Berlinguer?
«Berlinguer era la proposta filocattolica del comunismo, quindi piaceva a questo Paese. L’ho conosciuto, da vivo, aveva una bella luce negli occhi»
Nicola Piovani è una sua scoperta?
«Gli chiesi di scrivere una musichetta per il cinegiornale del Movimento studentesco. "Non ne sono capace", mi rispose. Poi la fece deliziosa».
E Morricone?
«Passava per avaro, invece musicò a spese sue sei miei film e non volle
mai farsi offrire nemmeno un caffè».
Sorprende che lei abbia montato "Grazie zia" di Samperi.
«Samperi era alle prime armi, ed io sono riuscito a dargli la dignità di un film».
In tanti ricordano il lavoro sui manicomi con Bellocchio e Sandro Petraglia.
« Matti da slegare. Ricordo che mi dissi: "Devi fare invidiare alle persone la follia"».
Il cinema commerciale non l’ha mai tentata?
«Franco Cristaldi mi offrì un assegno di tre miliardi di lire. Rifiutai».
Tre miliardi?
«Sì, era il 1975. Gli dissi: "Io i film e l’amore li faccio senza soldi"».
È una leggenda che non è mai andato a scuola?
«No, è vero. E sono figlio di un maestro. Ultimo di sei figli, ricordo le prime scarpe a 12 anni per la cresima».
L’India è stato l’amore più grande?
«Ho intervistato Osho. Ma il vero scoop lo feci con Indira Gandhi.
"Devo farle una domanda delicata", dissi, "gira voce che le spareranno". E lei: "Cosa c’è di delicato in un omicidio?". Poco dopo venne uccisa».
Il suo montaggio di "Forza Italia!", il film di Roberto Faenza, fece imbestialire la Dc.
«Era il ritratto vero di questo Paese, e infatti l’hanno tolto subito dalle sale».
Uscì a ridosso del sequestro Moro.
«Penso che sia stato un residuo di fascismo comunque».
Per chi vota?
«Vado al seggio e dico allo scrutatore che non riconosco la validità del voto».
Ha fatto teatro con Fabio Volo?
«Frequentavo la sua panetteria a Brescia, e un giorno sua madre mi chiese di parlargli, perché a 16 anni aveva strane idee. Lo incontrai, era un uomo di spettacolo nato.
"Lascia il forno e fai l’intrattenitore". E lui: "Cosa fa un intrattenitore?" (Agosti ne imita l’accento bresciano)».
Se le offrissero un altro posto riaprirebbe l’Azzurro Scipioni?
«Subito. Però lo vorrei qui a Prati. Ho dato una casa ai capolavori del cinema italiano, non può finire così».