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 2021  marzo 20 Sabato calendario

Prigionieri della stanchezza

All’improvviso, verso maggio, una grande stanchezza. Eravamo confinati in casa, senza poter uscire se non per fare la spesa, portare fuori il cane, far giocare i bambini. Separati gli uni dagli altri. E poi cucinare, pulire la casa, cercare le mascherine, telefonare ad amici e parenti, collegarci su Skype, su Teams, su Zoom, guardare i social, sfogliare i giornali e leggerli come prima non accadeva da cima a fondo. Sempre insieme gomito a gomito: mogli, mariti, compagni, conviventi, figli, zii, nonni. Prima di allora, prima del Covid tutto era accelerato. Dovevamo fare sempre più cose in un tempo sempre più breve. Il tempo della prestazione è stato di colpo sospeso; la tendenza a vivere più vite in una sola era svanita, vaporizzata, scomparsa. Una sola vita da vivere in casa. Così da marzo a maggio. Eravamo in preda all’inoperosità, quella sociale, perché la socialità era sospesa. Pur facendo tanto ci siamo sentiti inoperosi.
Non era la “pigrizia gloriosa” di cui parla Roland Barthes in una sua intervista, ovvero il puro far nulla, quello che viene chiamato comunemente ozio, per cui si dice che sia il padre di tutti i vizi. Eravamo molto attivi. Lavoro, studio, incontri, acquisti, tutto era diventato digitale: fare ma a distanza, usando il computer, i tablet, gli smartphone. A quel punto, quando la primavera era già esplosa, ci siamo sentiti stanchi, una stanchezza frutto della nostra inoperosità. Facevamo tante cose, quelle necessarie a vivere e a sostenerci, ma avevamo la sensazione di non fare nulla. Avevamo forse conosciuto il lato inoperoso della operosità? A quel punto è subentrata la stanchezza. Una stanchezza che non era tanto fisica, anche quella certo, ma prima di tutto una stanchezza mentale, meglio spirituale.
Un piccolo libro di Peter Handke, Saggio sulla stanchezza, tirato fuori dalla libreria, mi ha illuminato. Era la stanchezza del vivere, sperimentata nella sua forma elementare, quella, scrive Handke, che ci prende quando ci troviamo nel vicolo cieco delle relazioni sociali che non ci consentono di sollevare lo sguardo oltre gli angusti confini del presente. Come potevamo fare diversamente? Eravamo in un vicolo cieco. Intorno a noi le persone s’ammalavano, alcune erano ricoverate, alcune morivano. La stanchezza prendeva la forma di una ripetuta sonnolenza che si alternava a stati di tensione, d’ansia.Ecco, l’ansia diventava presente e palpabile. Uno stato d’animo che prima del 1893 nessuno aveva mai pensato potesse essere una malattia. Gli psichiatri viennesi la chiamavano Angstneurose: ipersensibilità al rumore, terrori notturni, palpitazioni cardiache, sudorazione. L’ansia era entrata nelle nostre case. Tuttavia era la stanchezza la forma più diffusa, anche in chi non voleva riconoscere questo stato. Una stanchezza sottile, per questo a suo modo più inquietante, che s’accompagnava alla banalità della vita che trascorrevamo nelle nostre case. Il nemico invisibile era fuori, là in attesa, era negli altri che potevamo incontrare in fila al supermercato, in posta, nel negozio d’alimentari. La nostra vita era diventata a suo modo usuale. Una stanchezza molto diversa da quella che il filosofo Byung-Chul Han analizza nel suo libretto La società della stanchezza, generata dalla società della prestazione, della corsa, dell’affanno. Non era neppure la stanchezza di Handke, quella stanchezza contemplativa, cui lo scrittore andava incontro per contrastare l’irrealtà di un mondo dominato dalla fretta e dalla velocità.
Abbiamo conosciuto una stanchezza inclassificabile, inedita, inusuale, con cui verso maggio abbiamo dovuto fare i conti. Pregavamo che tutto finisse; speravamo con tutte le nostre forze di riprendere i ritmi della vita normale, anche quelli eccessivi dell’attivismo lavorativo e sociale. Dopo grandi dosi di narcisismo, il nostro Io conosceva una forma d’arresto forzoso. Per questo il soggetto grammaticale che più ripetevamo era: “noi”. Quindi è arrivata l’estate. La luce, il sole e il caldo ci hanno fatto sentire meglio: uscire, stare all’aria aperta, magari seduti su una panchina a rosolarci al sole. La stanchezza è andata a poco scemando. Meno ansia; eppure l’ansia c’era ancora. Ci chiedevamo: cosa succederà in autunno e in inverno? Ci siamo crogiolati nella illusione di riprendere a vivere come prima, anche se non era così. Ci siamo anche adattati a quello che accadeva. Ci si ammalava meno e, intorno a noi, si moriva meno. Giorno dopo giorno abbiamo perso l’abitudine di guardare i bollettini quotidiani della pandemia. Abbiamo imparato nel mezzo dell’estate a vivere un poco più vicini agli altri, seppure sempre a distanza. Però la stanchezza non ci ha abbandonati.
Tornati al lavoro, o rimasti in smart working, abbiamo provato la gioia di uscire; era il desiderio ora soddisfatto di fare un bagno in mare, nuotare, salire un sentiero zaino in spalla, camminare per boschi e campi aperti, guardare in lontananza dopo mesi di orizzonti angusti. Tuttavia la stanchezza non è scomparsa. Siamo ripassati nella parte operosa della vita; non totalmente, ma più di prima. Siamo tornati a scuola, abbiamo insegnato in “presenza”. La stanchezza c’era sempre, come qualcosa che stava là, sul fondo, magari ricoperta da qualcosa d’altro, da stati di eccitazione oppure di scoramento, in alternanza quasi ritmica.
La stanchezza si è mutata in una forma di tristezza, perché sereni non lo siamo mai stati davvero, salvo qualcuno che ha trovato nell’isolamento una forma di spiritualità, qualcosa per debellare il proprio ingombrante io: una remissione. Ora siamo tornati ad essere più attivi. Si dice: vediamo la luce in fondo al tunnel. Il vaccino è la speranza di tornare alla vita di prima, di buttarci nelle braccia della stanchezza di sempre, quella che nasce dall’operosità, di cui Handke dice: «Un tempo conoscevo soltanto una stanchezza da tenere». Forse ci vorrebbe un poeta, qualcuno che scriva come W. H. Auden della nostra “età dell’ansia”. Da sempre la poesia ci aiuta a trovare le parole per dirlo, quelle parole che sembrano essersi consumate nell’oceano di discorsi e frasi che abbiamo ascoltato e detto in questo interminabile anno.