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 2021  marzo 20 Sabato calendario

Siamo tutti keynesiani

Alla fine, i governi di mezzo mondo hanno seguito i consigli di Mario Draghi. Quando era capo della Banca centrale europea, Draghi ha passato otto anni a chiedere ai politici di non lasciarlo da solo a stimolare la zona euro. All’epoca, ortodossia teutonica, penuria mediterranea e egoismo francese crearono una diabolica alleanza contro gli aiuti statali, costringendo la Bce a salvare la moneta unica con tassi bassi, acquisti di obbligazioni governative e parole melliflue.
C’è voluta la peggiore crisi del dopoguerra a far cambiare idea ai governanti. In un anno segnato dalla catastrofe Covid, le nazioni più ricche del pianeta hanno ricominciato ad allargare i cordoni della borsa per soccorrere cittadini, supportare economie e puntellare le infrastrutture mediche dei propri Paesi.
Dopo decenni di politiche di austerità influenzate dal credo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher contro il “Grande Governo”, i tragici fatti del 2020 hanno costretto i proseliti del darwinismo economico di Milton Friedman e Adam Smith a rivisitare le politiche di intervento statale promulgate da John Maynard Keynes.
Come disse, con amarezza, proprio Friedman nel 1965, “siamo tutti keynesiani ora”. La lista dei nuovi keynesiani include il Congresso americano, che ha appena approvato un “Piano per Salvare l’America” da 1.900 miliardi di dollari; il Giappone, che ha un budget simile agli Usa; l’Unione Europea, che sta dispensando 750 miliardi di euro del Recovery Fund; e persino la sparagnina Gran Bretagna, che ha decretato spese di 65 miliardi di sterline (e prestiti di 355 miliardi) nei prossimi due anni. Nel 2020, in totale, i governi hanno lanciato 1.600 programmi di protezione sociale, secondo un’analisi dell’ Economist.
I paradossi abbondano. Il primo è quello dei mercati. I finanzieri di Wall Street amano parlare di libero scambio di merci e servizi senza l’ingombrante presenza di regole e politici, ma in questo caso hanno fatto un’eccezione. Lo straordinario stimolo fiscale (pari al 13,5% del prodotto interno lordo mondiale), insieme alle politiche delle banche centrali, ha spinto azioni e obbligazioni in orbita nonostante i travagli delle economie reali.
Il secondo paradosso è che questo fiume di denaro pubblico arriva da governi di ogni colore politico. Te lo aspetti da Joe Biden, presidente democratico sostenuto da un Congresso amico, ma meno ovvio è che il suo predecessore, il populista destrorso Donald Trump avesse già sanzionato spese di 2 mila miliardi di dollari. O che una banderuola politica come Boris Johnson, che comunque è sempre il capo del partito della Thatcher, non si preoccupi che il debito pubblico britannico è ai livelli più alti di sempre. O che l’Ue abbia convinto i tedeschi che la spesa pubblica (per il bene di tutto il blocco) non è una parolaccia.
Funzionerà? Sì e no. Assolutamente sì ad attutire il colpo socio-economico del virus. Probabilmente no a creare una ripresa lunga e sostenibile. Le previsioni economiche per il 2021 e, soprattutto, il 2022 dimostrano che le politiche keynesiane aiuteranno ad evitare un altro tuffo nella recessione, la disoccupazione di massa e un ingrandimento della sperequazione sociale in molti paesi.
Il problema a medio termine è che bisognerà pagare l’enorme spesa di questi anni. Ci sono solo due sistemi di pagamento e non sono indolori: tasse più alte e/o l’inflazione (che a sua volta porta a rialzi nei tassi d’interesse). In entrambi i casi, la crescita economica ne risente.
L’alternativa sarebbe continuare a spendere, come fece l’America degli anni ‘30 con il New Deal, ma mancano sia le condizioni politiche – l’opposizione dei molti critici della spesa statale – sia quelle economiche – l’indebitamento dei paesi ricchi è già alto e costoso.
Per ora, il motto dell’economia mondiale è “compra ora, paga dopo”, ma vale la pena ricordare un’altra delle frasi preferite di Milton Friedman: «Non esiste il pranzo gratuito».