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 2021  marzo 20 Sabato calendario

Orsi & tori

Guardare indietro per guardare avanti non è un esercizio futile, specialmente per un paese come l’Italia. I mali attuali dell’Italia, infatti, sono un’eredità degli anni 60, 70 e 80. Mi faccio e vi faccio, cari lettori, grazia degli anni 60 e 70, perché quelli, con il terrorismo, la crisi petrolifera e le premesse di Mani pulite, sono un accessorio fondamentale, ma non decisivo, perché fino ad allora, l’Italia, pur artefice fondamentale del Trattato di Roma e della nascita dell’embrione dell’Europa unita, aveva mantenuto la sua sovranità, precaria, fragile, tipica della nostra specie, ma pur sempre sovranità. E preciso subito che personalmente e come casa editrice siamo europeisti convinti.Anche i grandi uomini che hanno governato l’economia (e conseguentemente anche la politica italiana) fino agli anni 90 erano e sono europeisti convinti: da Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, presidente della Confindustria, senatore della Repubblica e ministro del Tesoro, a Carlo Azeglio Ciampi, governatore, presidente del Consiglio, ministro del Tesoro e infine presidente della Repubblica, ma anche Lamberto Dini, direttore generale di Bankitalia, ministro del Tesoro, presidente del Consiglio, senatore e ministro degli Esteri in più governi. E mi fermo, non senza sottolineare che chi si sorprende o non accetta concettualmente che Mario Draghi sia arrivato a presidente del Consiglio, dovrebbe riflettere che le migliori espressioni di competenza, serietà e valori democratici sono venute in larga parte da Via Nazionale 91, dal palazzo austero di Bankitalia.
Il fatto è che in alcuni casi l’europeismo sincero è stato anche sentimento e sogno. In particolare nel caso del presidente Ciampi. Lui e l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, anch’egli per ideale sincero, dopo aver allargato enormemente i partecipanti al progetto europeo come presidente della Commissione Ue, decisero di accettare condizioni pesanti per l’ingresso della lira nell’euro.
Fu un errore? Le scelte vanno sempre contestualizzate nel momento e nel feeling del momento, specialmente se insieme alle decisioni materiali ci sono anche ideali che fanno da stella polare. Quindi, in tal senso non è corretto dire che fu un errore. Ma certo, guardando indietro fu, è diventato, un errore almeno nelle condizioni accettate.
Allora la moneta guida dell’Europa era il marco e per avere un marco ci volevano circa 989,999 lire, quando l’8 maggio ’95 si era arrivati addirittura a 1.188,75 lire per un marco; poi il cambio si era stabilizzato a 989 per via dell’ingresso nel serpentone. Ma all’inizio degli anni 90 il cambio era a 751,11, per non parlare degli anni 70 quando aveva oscillato fra 170 lire e un massimo, agli inizi degli anni 80, di 471 lire.
Che cosa dimostrano queste cifre? Che per l’inflazione e il debito pubblico crescente la lira si era drammaticamente indebolita appunto fino ad arrivare a 1.188,75 per un marco.
Con la conseguenza che, avendo ottenuto l’ingresso nel serpentone preparatorio dell’euro, a Prodi e a Ciampi sembrò essere conveniente entrare nel serpentone e poi nell’euro a 989,999. Ma ci sono teorie autorevoli che dicono che era possibile ottenere condizioni migliori (per esempio, i rapporti dall’ambasciatore a Parigi dell’epoca, Sergio Vento, il quale informava che c’era spazio per negoziare condizioni migliori poiché gli industriali francesi e tedeschi non avrebbero mai accettato di far rimanere l’Italia fuori dall’euro). Per la semplice ragione che la lira avrebbe potuto effettuare altre svalutazioni competitive e quindi rendere micidiale la concorrenza dei prodotti italiani rispetto a quelli degli altri due Paesi più importanti dell’Europa.
Non aver tenuto conto di questi spazi di trattativa, la conseguenza delle scelte di Prodi e Ciampi sono state che l’euro fu fissato a un valore di 1.936,27 lire, con un inevitabile impoverimento dell’Italia e degli italiani rispetto al cambio di appena due marchi per un euro. Ma al momento della riunificazione fra Germania dell’Est e Germania dell’Ovest il presidente Helmut Kohl ottenne dagli altri Paesi della Ue che un marco dell’Est valesse per le partite correnti quanto un marco dell’Ovest e, per debiti e patrimoni, 2 marchi dell’Est per uno dell’Ovest. Con l’effetto di far diventare immediatamente meno, molto meno poveri, anzi quasi ricchi i 35 milioni circa di cittadini della Germania dell’Est.
Esattamente l’opposto di quanto capitò in Italia al momento della fissazione del valore dell’euro pari a quasi 2 mila lire.
Nessuno può discutere che l’accettazione da parte dell’Europa e quindi anche dell’Italia della richiesta di Kohl sia stata un gesto umanitario importante, ma certo quando la Germania ancora oggi critica l’Italia, non tiene conto dei due fattori che hanno condizionato la vita del Paese a partire dalla creazione dell’euro: impoverimento degli italiani e zero flessibilità per l’industria e i servizi, proprio nel momento di massima difficoltà delle imprese del Paese.
Con questo non voglio assolutamente dire (il senno di poi non vale) che quella scelta di Prodi e Ciampi non dovesse essere fatta. No, ma questi dati servono a spiegare le difficoltà successive dell’Italia, un Paese non virtuoso, che si trovò forzatamente a esserlo non potendo più stampare moneta e fare svalutazioni competitive. Oltre al fatto che per arrivare a entrare nell’euro dovette anche chiedere ai cittadini una tassa specifica e soprattutto privatizzare in condizioni difficilissime alcune delle sue più importanti attività, con conseguenze gravi che pesano ancora oggi, nell’epoca tecnologica.
In particolare si è rivelata disastrosa la privatizzazione, rimasta per questo senza guida, di Telecom Italia, ora Tim. Telecom Italia sia pure con il nome di Stet-SIP era la più forte telco d’Europa, con presenza in molti Paesi del continente e perfino in Brasile. Averla privatizzata, per stato di necessità, cioè per necessità di incassare da parte dello Stato il più possibile ma subito, determinò l’adozione dello schema francese del noyau dur, cioè del nocciolo duro di azionisti per garantire la gestione aziendale. Peccato che fu un nocciolino per niente duro, visto che il maggior azionista erano gli Agnelli con meno dell’1%. Dopo una serie di cambi di presidente ci fu l’opa guidata da Lehman Brothers e dal bresciano Emilio Gnutti. L’unico solido manager era Roberto Colaninno, ma l’opa, come tutte le opa, avvenne fondendo poi il veicolo indebitato e quindi drenando la liquidità della società, il cui debito prese a salire. Se oggi Tim fosse come Telecom Italia pre-opa, l’Italia sarebbe ancora leader in Europa e Brasile nelle telecomunicazioni, in internet, e in tutte le tecnologie connesse. Sicuramente non ne valse la pena, anche perché in Francia, in Germania e negli altri Paesi le telco hanno tuttora una quota decisiva dello Stato, essendo fra l’altro diventate sempre più strategiche.
Privatizzare era anche cosa buona, ma era necessario farlo con calma e con assetti azionari nuovi solidi. Invece, alla rincorsa dell’euro, che per carità ha stabilizzato la valuta e i tassi, l’Italia non era pronta. E infatti, come abbiamo ricordato nel libretto scritto a due mani con il professor Paolo Savona, a Carli, quando firmò nel ’92 il Trattato di Maastricht, gli tremava la mano (Il Trattato di Maastricht-Quando a Carli tremò la mano- Perché firmò, se sapeva che l’Italia era impreparata?, Milano Finanza editori). Me lo confessò lui stesso e nel libretto è riprodotta la sua firma, appunto tremante, sotto il Trattato. Carli lo fece perché non si fidava della classe dirigente italiana e quindi mise il vincolo esterno, visto che il Trattato aveva come obiettivo la moneta unica. Ma proprio perché Carli era consapevole del rischio, aveva spinto per una clausola di sicurezza per cui, al momento della realizzazione dell’euro, avrebbe potuto chiedere un rinvio. Rinvio che colse la Gran Bretagna. Per l’Italia non era una questione di sovranità imperiale, ma qualche altro anno con possibilità di avere la massima competitività dell’imprenditoria italiana avrebbe forse scongiurato la caduta e di fatto l’azzeramento della crescita del pil, drammaticamente aumentata dalla crisi Lehman (guarda caso) del 2008.
Ma se queste considerazioni scritte da me hanno un valore che si può attribuire a uno scribacchino, a sostenerlo fu un articolo del grande Paolo Baffi, scritto nel giugno del 1989, mentre era già in ospedale, e pubblicato su La Stampa di Torino, e ripubblicato nel libretto già citato. La sostanza dell’articolato excursus di Baffi era il seguente: la storia monetaria europea ci rivela che ogni qual volta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste. In altre parole Baffi temeva, come poi è avvenuto, che senza una integrazione vera, non solo della moneta, ma degli aspetti fiscali, degli incentivi e disincentivi, l’economia non avrebbe potuto essere florida. Specialmente per i Paesi già in difficoltà.
Carli replicò alle tesi di Baffi, consapevole delle importanti argomentazioni del suo successore, ma la lettera non fu pubblicata da La Stampa per le precarie condizioni di salute di Baffi, che di lì a poco venne a mancare.
Aver ricordato i fatti non poteva essere una dichiarazione di antieuropeismo, ma un invito a raggiungere la coscienza che l’aver accettato i contenuti di quell’accordo richiedeva comportamenti coerenti, che non ci sono stati. Certo, per la Germania non è stato come per l’Italia, che dopo l’euro non si è più sviluppata adeguatamente. Certo, non solo per una responsabilità profonda dell’euro, ma perché le limitazioni imposte dall’euro sono diventate deflagranti in un contesto di gestione politica inadeguata del debito pubblico, sempre crescente, dell’evasione fiscale, del non adeguato sviluppo tecnologico, dell’inefficienza della burocrazia, del crescente peso delle cosche, per la parzialità di una magistratura autoreferenziale per consentirle libertà assoluta, ma appunto per questo degenerata in alcuni punti cruciali dell’organizzazione, come hanno dimostrato le confessioni ad Alessandro Sallusti dell’ex magistrato Luca Palamara.
Quindi, non si può considerare l’euro responsabile principale della situazione attuale, in quanto di per sé la moneta unica per un’unione è fondamentale, ma il suo effetto dipende dai rapporti di cambio fissati e dalle condizione di salute dei singoli Stati.
Se si guarda indietro, almeno per una lettura realistica come ho cercato di fare, cosa si vede nel futuro, appena il Covid non sarà la ragione centrale di ogni informazione, di ogni analisi, di ogni atto principale del governo?
Nel futuro, immediato, si vede la necessità di non sottovalutare il debito pubblico proprio generato dell’inefficienza italiana, non quello creato dal Covid. Non ci si può illudere, come qualcuno ha annunciato pomposamente, che il Recovery Fund è l’inizio della socializzazione del debito. Chi ha detto questo, faceva propaganda dall’interno del precedente governo. Sul punto il presidente Draghi ha idee chiare, manifestate fin dal suo intervento all’inizio della pandemia sul Financial Times: il debito Covid è un debito indispensabile, come quello di guerra. E anzi non bisognava avere paura a spendere. La Germania insegna: oltre che per la creazione di 35 milioni di ricchi dell’Est, di fatto ha ottenuto di non ripagare che una piccola parte del debito di guerra, una guerra atroce causata da un folle seguito da molti folli, come Adolf Hitler.
Ma il debito autoprodotto dall’inefficienza complessiva del Paese, nonostante abbia molte eccellenze, quello non è socializzabile. I tedeschi, ma anche i francesi non lo consentiranno mai in un’Europa incompiuta. E quindi occorre prepararsi a restituirlo, anche se sono stati temporaneamente sospesi i parametri folli del Fiscal compact, fissati per il rigorismo tedesco e dei Paesi cosiddetti parsimoniosi. E i modi per ripagare un debito sono solo due: o si genera margine con un forte sviluppo, quindi non si ha bisogno di rifinanziare tutto il debito, che progressivamente scende, oppure si vende ciò che è vendibile. Mentre sono state deleterie alcune privatizzazioni, vendere immobili non crea nessun sconquasso produttivo. È sicuro che il presidente Draghi stia pensando a un tale progetto.
Ma lo sviluppo è comunque necessario, anzi assolutamente indispensabile. Senza sviluppo non solo gli esseri umani ma anche gli Stati muoiono. E bisogna prendere al volo la dichiarazione di mercoledì 17 del presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, secondo cui l’industria italiana è pronta. «L’industria italiana è come una Ferrari», ha aggiunto. E a parte l’area della tecnologia digitale, è vero: ci sono moltissime eccellenze industriali italiane. Ma come la Ferrari, le aziende devono avere il serbatoio pieno. Non si può più tollerare che del risparmio italiano, il secondo al mondo dopo il Giappone, vengano investite le sue forme finanziarie per il 75% all’estero, prevalentemente da gestori ma anche da singoli cittadini, ed essenzialmente perché la borsa italiana è meno di un catino. Sia come mercato principale, che come AIM, il mercato delle pmi, la vera struttura portante dell’industria italiana: in dieci anni di AIM siamo a un centinaio di aziende, anche se il ritmo si è accelerato, ma soprattutto l’AIM è un mercato sostanzialmente illiquido. Sono anni che chi si dedica a questo fondamentale tema per lo sviluppo del Paese predica che Cdp, le banche, chiunque voglia e possa, istituisca un fondo o più fondi specializzati per creare liquidità, senza la quale gli investitori, istituzionali o meno, non entrano. In più, lo specialista deve diventare un market maker. Ma non basta, occorre che il governo Draghi, di fronte a tutte le agevolazioni, spesso improduttive, che le varie clientele hanno disseminato nel sistema italiano, preveda una forte agevolazione fiscale sia per le società che si quotano, sia per chi vi investe. I Pir non bastano, neppure quelli riformati. Ci vuole un’iniziativa che faccia dimenticare quell’obbrobrio che il precedente governo aveva fatto, che per avere un credito fiscale occorreva fare l’aumento entro il 31 dicembre, prima per gli investitori e per le aziende, poi solo per le aziende.
Da anni questo giornale ha lanciato la selezione delle migliori pmi con il marchio Motore Italia; ora Stefano Barrese, capo della banca dei territori di Intesa Sanpaolo, ha ripreso con grande sensibilità l’idea e sotto il marchio di Motore Italia finanzierà per 50 miliardi le pmi. La prima banca d’Italia e la seconda d’Europa sta facendo la sua parte. Ora deve muoversi il governo, proprio nel momento in cui Borsa italiana entra a far parte di Euronext. La Consob è pronta: il suo presidente, Paolo Savona, ha cominciato a stimolare il sistema per far fare aumenti di capitale e accendere meno debiti il giorno stesso in cui è stato nominato. Presidente Draghi, non esiti.