La Stampa, 20 marzo 2021
Contro Napoleone
«Napoleone non è un eroe da celebrare». Ci va giù pesantissima, sulle colonne del New York Times del 18 marzo, Marlene L. Daut, giovane professoressa dell’Università della Virginia, che si definisce «donna nera di origini haitiane e studiosa del colonialismo francese». La indigna il fatto che nell’occasione ormai prossima del bicentenario della morte, il fatidico 5 maggio, siano previste dozzine di eventi in suo onore, a partire dalla grande Exposition Napoléon che sta per aprire ai Musei Nazionali.
La Daut ricorda che la schiavitù, abolita dalla Rivoluzione nel 1794, è stata reintrodotta da Napoleone Primo Console nel 1802. La Francia è così diventata il primo e unico Paese che ha ripristinato la schiavitù dopo averla abolita (sarà cancellata definitivamente solo nel 1848). Ne erano seguite le rivolte dei neri antillani, represse ferocemente, persino con l’uso dei gas, anche se ad Haiti i ribelli riusciranno a sconfiggere i francesi.
Secondo la Daut, in Francia gli studiosi che si occupano di razzismo e di genere sono sotto attacco. Le risulta difficile comporre l’immagine di un Napoleone «razzista e genocida guerrafondaio» con una ideologia che si vuole libertaria. Per lei le contraddizioni tra i diritti umani cari alla Rivoluzione e le successive aberrazioni razziali e schiaviste sono un elemento costitutivo del repubblicanesimo alla francese. Lo stesso Macron, accusando neppure tanto velatamente gli studi post-coloniali di simpatie fondamentaliste, o addirittura di gauchismo islamista, incorrerebbe in un vecchio peccato francese: l’insistenza a vendere, peraltro benissimo, un brand fortunato e farlocco come «Liberté, Egalité, Fraternité».
È un fatto che di quei misfatti poco si parla, come si preferisce sorvolare sul massacro di tremila prigionieri turchi a Giaffa, malgrado la promessa d’aver salva la vita, durate la campagna d’Egitto. Tutte cose che il grande pubblico, non solo francese, sa poco, preferendo il più appagante consumo del mito dell’eroe borghese, l’ex-caporale che in soli dieci anni s’era calcato in testa la corona imperiale. Ma è altrettanto vero che da qualche tempo gira per il mondo un virus culturale che ha anche lui le sue brave varianti, capaci di diffonderlo ancora più rapidamente. È l’ossessione del «politicamente corretto» che porta a guardare ai fatti storici con le lenti di un moralismo grezzo e intransigente, da tribunale dell’Isis. Si allarga a macchia d’olio un odio semplificatore e sprovveduto, tipico dei social, che si accontenta di una esecrazione da clic. Non c’è grande personaggio che possa resistere a condanne sommarie emanate sulla base di luoghi comuni: facile trovargli colpe anche gravi, in grado di consegnarlo alla dannazione della memoria. Dovremo forse buttare giù la statua di Marx perché aveva sedotto una domestica? O smettere di occuparci di Mussolini per via delle leggi razziali?
Gli anniversari e le ricorrenze servono non a celebrare qualcuno, ma a fare i conti con il passato: fin in fondo. La Storia non viene scritta una volta per tutte, ogni generazione è chiamata a scrivere la sua, a misurarsi con grandezze e misfatti, a cercare di capire e imparare qualcosa. Gramsci ha osservato che la Storia è un’ottima maestra, ma gli uomini sono dei pessimi allievi. Questo non ci esime dal dovere di continuare a fare Storia seriamente, di andare a pescare nel gran mare del passato quel che serve a illuminare un po’ meglio il futuro prossimo.
Il dovere della Storia sembra eroso ogni giorno dalle fibrillazioni di un presente nevrotico e superficiale, credulone, ripiegato su se stesso. Se c’è una vicenda che ha ancora molto da insegnarci, nel bene e nel male, è proprio quella di un personaggio complesso, poliedrico, contraddittorio come Napoleone: fuori misura in tutto, ed è quello che aveva colpito già i suoi contemporanei, da Goethe, Stendhal e Balzac in giù. Napoleone è l’uomo che ha fatto milioni di morti, che ha drenato cinicamente le risorse degli Stati vassalli, che ha ignorato colpevolmente le sensibilità e le suscettibilità nazionali, dalla Spagna alla Russia, che ha accentrato nelle proprie mani ogni pratica grande, minima o infima fino a per provocare il collasso di un sistema diventato ingovernabile per gigantismo.
Ma è anche il fondatore della modernità, il geniale statista multitasking che a tutto provvedeva, sulla cui eredità campiamo ancora. Ha promosso il fondamentale Codice Civile che porta il suo nome, ha ristrutturato la macchina amministrativa dello Stato, creando una struttura centralizzata per l’esazione delle imposte. Ha abbattuto i privilegi feudali, introdotto la meritocrazia aprendo le carriere ai figli del popolo, sviluppato industria e commerci, varato la riforma della magistratura e del sistema giudiziario, ammodernato il sistema viario, protetto le lettere, le arti e il teatro, creato un Istituto di Statistica per ragionare su dati certi, investito sull’insegnamento e la formazione dei futuri quadri dello Stato, «garanzia per l’avvenire», potenziato il Louvre e Brera (magari con i cospicui furti d’arte perpetrati scientificamente), portato in Egitto un centinaio di scienziati e di tecnici e fondato la moderna egittologia. Sarà il caso di studiarlo da vicino senza esaltazioni e senza preconcetti. Tra i suoi tanti, fulminei aforismi ce ne sono due su cui i governi della Repubblica, nessuno escluso, non hanno mai meditato seriamente: «Ci vuole più coraggio nell’amministrare che nel fare la guerra»; «Le cose più importanti al mondo si realizzano grazie alla cultura».