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 2021  marzo 20 Sabato calendario

Beirut affonda nelle macerie

Del ristorante "Positano" è rimasta soltanto l’insegna. L’esplosione del 4 agosto se l’è portato via, assieme a gran parte dei locali di Mar Mikhail, il centro della movida di Beirut, la fu Parigi del Medio Oriente. Samir l’aveva riaperto a giugno, quando il peggio sembrava passato. Ma il Covid, la terza mazzata in un anno, lo ha messo a terra. «Non riaprirò - racconta -. Se non fosse per l’epidemia tornerei in Italia». Cinque anni fa, quando è rientrato in Libano per lanciare un suo locale mai avrebbe immaginato un epilogo così. «È peggio che durante la guerra civile. Allora i negozi rimanevano aperti, anche sotto le bombe. Le banche non hanno mai chiuso, come è successo un anno e mezzo fa. Non si trova neppure il latte in polvere. Sembra di essere in Siria». Le macerie che ancora ingombrano i marciapiedi di Mar Mikhail non sono quelle di un bombardamento, ma il frutto della «più potente esplosione non nucleare della storia», il 4 agosto, oltre duemila tonnellate di nitrato d’ammonio lasciate lì per sei anni e poi deflagrate con una potenza di un megatone. Lo scheletro dei silos del grano, sventrati, resta a monito. Tutt’intorno detriti e rottami, che la società tedesca incaricata della rimozione non vuole portar via, in mancanza di pagamenti da parte dello Stato.
I tedeschi non sanno neppure a chi chiedere. Il Libano è senza un governo da agosto. Le riserve in dollari stanno per finire. Il governatore della Banca centrale, Riad Salameh, si rifiuta di dire a quanto ammontano. Quattordici miliardi, o forse quattro, come azzardano i giornali critici, L’Orient-Le-Jour, Annahar. Soltanto per comperare il gasolio per le centrali elettriche se ne vanno 500 milioni al mese. Da gennaio il ministero delle Finanze non sussidia più l’importazione di beni di prima necessità. La svalutazione selvaggia della lira, che martedì ha toccato un picco negativo di 15.000 per un biglietto verde, ha messo in ginocchio i supermercati. «Anche quando ce li hanno, tolgono i beni dagli scaffali per non venderli in perdita - spiega ancora Samir -. Senza le sovvenzioni, non potranno più rifornirsi all’estero, sarà il collasso». Fino a settembre del 2019 la lira era ancorata a un cambio fisso a 1500. Poi, con l’asciugarsi degli investimenti dal Golfo, è collassata. Due conti su tre, quelli della classe media, erano espressi in dollari. Le famiglie adesso possono ritirare solo lire, svalutate di oltre l’80%, ma le spese importanti, a cominciare dalle rette nelle scuole private, vanno pagate in dollari.
Le illusioni della «rivoluzione del 17 ottobre», l’autunno caldo del 2019, si sono volatilizzate. I politici corrotti e settari sono rimasti ai loro posti. Il fumo degli pneumatici bruciati ai principali incroci, come Kola, dove confinano la Beirut sciita, sunnita e cristiana, è l’ultima manifestazione di rabbia, priva di sbocco. Senza i turisti dal Golfo e dall’Europa, intere fette della città sono fantasma: il centro, i suq ricostruiti in stile emiratino da Rafic Hariri. Nessuno può più permettersi le boutique griffate del grande magazzino Aishti. Il Suq al-Tayyib, un mercatino di prodotti organici, si è trasferito a Mar Mikhail e ospita anche una tavola calda che fornisce pasti gratuiti ai bisognosi. Tutto intorno è un brulicare di motorini per le consegne a domicilio. Ristoranti e bar sono chiusi al pubblico dall’8 gennaio. La seconda ondata di Covid è partita dopo rispetto all’Europa, ma con effetti devastanti, frutto dell’irresponsabilità politica. Per frenare la crisi il governo del premier dimissionario Hassan Diab ha lasciato festeggiare, con party di Capodanno da mille persone, senza mascherina.
In pochi giorni i casi sono schizzati a 7 mila al giorno, su una popolazione di 6,2 milioni. Come 70 mila in Italia. Due mesi e mezzo di lockdown non hanno piegato la curva. Ieri i contagi sono stati 3757, 73 i morti. Gli ospedali sono sotto pressione e i medici implorano di non riaprire lunedì, come previsto. Quelli rimasti, perché a Beirut in mille sono fuggiti all’estero, un quinto del totale. Le vaccinazioni sono partite dopo un prestito della Banca mondiale di 34 milioni di dollari. Finora sono state inoculate 130 mila dosi ma si è rischiato lo stop dopo che 14 deputati si sono fatti vaccinare per primi, oltre al presidente Michel Aoun, 86enne, e il suo staff. Lo stesso Aoun è stato poi protagonista di un litigio con il premier incaricato Saad Hariri, che da 8 mesi cerca di formare un governo tecnico. Forse ce la farà lunedì, viste le minacce di sanzione da parte di Emmanuel Macron e una mediazione dell’onnipresente Russia, con pressioni su Hezbollah. Uno spiraglio, ma non sufficiente a far respirare i libanesi allo stremo.