Il Messaggero, 19 marzo 2021
Luca Serianni parla del romanesco
Luca Serianni, insigne linguista e filologo, romano, classe 1947, nel luglio del 2019 aveva partecipato al progetto Grande come una città, organizzato nel III Municipio, tenendo una splendida lezione pubblica, che ora è stata raccolta nel libro Le mille lingue di Roma (Castelvecchi, 50 pagine, 7 euro). La riflessione di Serianni parte proprio dal plurilinguismo, che ha contraddistinto dall’antichità la città eterna con l’influenza dei popoli italici, poi quella dell’essere sede papale, il Rinascimento e i Papi Medicei, per arrivare all’evoluzione odierna della lingua.
Qual è l’attuale definizione del romanesco?
«Negli ultimi settant’anni è un dialetto che ha scolorito la propria specificità, lessico e morfologia rispetto ad altri dialetti più vivi. A parte l’intonazione, però è largamente trasparente per tutti gli italiani. Questo è stato uno degli elementi che ne ha garantito la fortuna. Pensiamo all’importanza del romanesco nella grande tradizione della commedia all’italiana con grandi attori come Manfredi, Sordi o De Sica che hanno fissato questo bozzetto del romanesco riconoscibilissimo come tale e circolante in tante altre aree. Parole tipiche del romanesco sono diventate italiane».
Un esempio?
«Mi viene in mente un modo di dire: Non me ne può fregare di meno. Un viaggiatore francese del primo Ottocento notò che a Roma si diceva spesso chi se ne frega. Ritrae lo scanzonato scetticismo dei romani, legato al genio locale, ma è diffuso e usato in altre parti d’Italia».
Nel Devoto-Oli ha rilevato 150 voci del dizionario marcate con riferimento al romanesco: fregnaccia, monnezza, pischello. Perché non accade con nessun altro dialetto?
«Come accennavo, la fortuna dei film e la televisione. Il fatto banale che Roma è la sede della Rai e quindi molte trasmissioni sono gestite da persone con abitudini linguistiche romane. Con la progressiva apertura dei programmi televisivi alla società civile, la pronuncia e l’espressività romanesca sono passate nell’uso comune. Non scatta nessuna autocensura. I tratti si avvertono compatibili con lo standard italiano».
E il romanesco nei social?
«La sua presenza è molto forte. Ormai ha conquistato sul piano della espressività un posto notevole. La battuta di spirito, come anche il turpiloquio, si fa molto più facilmente in romanesco».
Dante nel suo trattato De vulgari eloquentia definisce il romanesco tristiloquium, una lingua squallida. Da che cosa dipendeva il marchio negativo?
«Parlava male di tutti i dialetti italiani, compreso il fiorentino, perché riteneva che nessuno fosse degno di aspirare al titolo di volgare illustre. Restò colpito dal fatto che nella Roma della sua epoca non si usava altro pronome allocutivo che il tu e non si alternavano, a seconda dell’interlocutore, il tu e il voi. Però il disprezzo dipendeva dal confronto tra i romani e i fiorentini del tempo che vivevano uno sviluppo avanzato del terziario con i banchieri e i mercanti».
Che cosa intendiamo per sopravvivenza di una lingua e in particolare delle nuove tracce del latino a Roma?
«Il fatto che moltissime case anche borghesi di Roma, costruite tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento avessero un motto in latino, indica la percezione di una continuità che è una caratteristica tipica di Roma. Sentirsi eredi della latinità soprattutto quando Roma è diventata la capitale del nuovo Stato. È un elemento di prestigio a cui i romani sono sensibili. Si riscontrano anche in quartieri non in pieno centro storico, penso all’Appio Tuscolano».
Che cosa accadde quando il principe Gabrielli chiese a Gioachino Belli, massimo campione della letteratura romanesca, di tradurre i Vangeli in romanesco?
«È riuscito nella sua intenzione di costruire un monumento alla plebe romana, tuttavia era uno dei tanti che disprezzava il romanesco. Quando arrivò la proposta di Gabrielli si rifiutò, qualificando la parlata come abietta e buffona. È un paradosso che il più grande poeta in romanesco lo disprezzasse».